Ecco il dodicesimo podcast di Sounds & Grooves per la 19° stagione di RadioRock.TO The Original
In questa avventura in musica riprendiamo
A pensarci è incredibile che siano passati 19 anni da quando questa folle ma fantastica avventura chiamata Radiorock.to The Original è iniziata. Folle perché ormai la parola podcast è entrata di diritto nel lessico comune e sono migliaia i podcast musicali, di attualità o di qualsiasi altro argomento a disposizione di chiunque. Ma diciannove anni fa è stata una vera e propria scommessa di un manipolo di matti inebriati dalla passione per la musica e dalla volontà di rendere facilmente fruibile un palinsesto che potesse parlare prevalentemente di rock senza disdegnare una panoramica sulla musica di qualità a 360 gradi. La nostra motivazione è stata quella di dare un segnale di continuità con quella meravigliosa radio del passato che molti custodiscono nel cuore e a cui ho provato a dare un piccolo contributo dal 1991 al 2000. Tra il 1996 ed il 2000 molti di noi hanno lasciato progressivamente la radio in FM al suo destino ma l’idea non poteva essere replicata nell’etere visti i costi e la situazione legislativa dell’FM dell’epoca,. Fortunatamente però la passione e la voglia di fare radio e di ascoltare e condividere musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata.
Questa creatura continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo con forza la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Massimo Santori aka Moonchild ed io proveremo ogni giorno a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
In questo dodicesimo episodio stagionale torniamo ad affrontare le consuete scorribande nella storia della musica alternando novità come la conferma del talento di Squid e Anna B Savage, l’interessante nuovo Jules Reidy e il solito splendido Bonnie “Prince” Billy, a capolavori consolidati come gli stralunati Ween, i dinamici fIREHOSE e gli immortali Swell Maps. Ci sarà spazio anche per la psichedelia noise degli Skeleton Wrecks, la potenza e il messaggio sociale degli Algiers, uno Smog di annata e i dimenticati gallesi Jack. C’è spazio anche per il caleidoscopio sonoro dei The Heliocentrics e le sublimi traiettorie hip-hop di Danger Mouse & Black Thought prima che la “Biko” di Peter Gabriel chiuda il tutto ricordandoci gli errori del passato e mettendoci in guardia su un futuro che sembra diventare sempre più scuro. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Prima di partire con questo viaggio in musica potete effettuare il download del podcast anche nella versione a 320 kb/s semplicemente cliccando sul banner qui sotto.

Iniziamo il podcast con l’atteso ritorno di un gruppo inserito già dall’esordio nella scena post-punk proveniente dalla Gran Bretagna che ha raccolto allo stesso tempo consensi e critiche. Ad onor del vero la stessa etichetta post-punk la trovo davvero fuori luogo, una sorta di calderone dove viene messo tutto ed il contrario di tutto. In ogni caso, tra le proposte meno convenzionali associate a questa etichetta, tre gruppi sembrano essere sotto l’occhio del ciclone per la loro proposta complessa e strutturata: Black Midi, Black Country New Road e Squid. Se per i primi la forma e la tecnica sembrano aver (purtroppo) sovrastato la parte emozionale, per Black Country, New Road e soprattutto Squid le cose sembrano essere diverse. Il quintetto capitanato dal batterista-cantante Ollie Judge nasce a Brighton nel 2017 ed il loro suono prende forma dall’amore per gruppi non certo convenzionali come This Heat, Talking Heads e Wire. Dopo alcuni singoli ed un EP usciti per la piccola etichetta Speedy Wunderground, è la Warp ad interessarsi a loro e a metterli sotto contratto.
Dopo l’attesissimo esordio Bright Green Field, uscito nel 2021 che abbiamo passato più volte dalle nostre parti, due anni fa l’atteso seguito intitolato O Monolith aveva presentato diverse sfaccettature stilistiche anche rispetto al già ottimo esordio. Ecco dunque arrivare, a distanza ancora di due anni, il terzo lavoro che ci mostra una band in continua evoluzione. Per la scrittura dei brani di Cowards, il batterista, cantante e maggior compositore Ollie Judge si è ispirato ai viaggi in diversi paesi e soprattutto alla lettura di libri sulla storia di queste nazioni per creare quello che ha descritto come un “libro di fiabe oscure”. Fortunatamente il quintetto di Brighton non perde le sue caratteristiche di imprevedibilità come dimostra già l’apertura quasi math rock di “Crispy Skin” inserita nel podcast.

Mondi che si scontrano con fragore: proto-punk, hardcore, free jazz, power pop, musica sperimentale, funk, soul, rock psichedelico e il primo trip di acidi tutto insieme. Il trio più memorabile e creativo a memoria d’uomo, quello formato dalla voce e dalla chitarra di D.Boon, dal basso rutilante di Mike Watt e dalla batteria di George Hurley prendeva il nome di Minutemen. La band ha prodotto un suono caleidoscopico e trascinante, dove la ritmica funk si sposava con il calor bianco dell’hardcore, lasciando un piccolo spazio anche per il folk, in un esplicitare i più disparati generi musicali che non risultava mai ne dispersivo ne disomogeneo.
Sono stati uno dei gruppi più innovativi del rock e chissà dove i tre ci avrebbero portati se la loro parabola non si fosse drammaticamente conclusa con la morte di Boon in un incidente con un furgoncino in Arizona il 22 dicembre 1985, a soli 27 anni. A seguito della morte di Boon, né Watt né Hurley avevano intenzione di continuare a suonare. Ma, incoraggiati da un fan del gruppo formarono i fIREHOSE nel 1986 insieme all’allora ventiduenne Ed Crawford, chitarrista e fan dei Minutemen. Ragin’, Full On è il primo album della band, dedicato (come saranno tutti gli album del trio) a D. Boon. L’approccio è simile al progetto precedente, ed il trio mantiene le stesse dinamiche di sintesi tra punk, funk e (talvolta) free jazz lasciando però più spazio allo sviluppo della forma canzone. “Brave Captain” mostra un trio già affiatato ed in gran forma. L’avventura fIREHOSE si concluderà nel 1995 dopo cinque lavori in studio.

Andiamo avanti nel podcast con un un gruppo britannico magari meno conosciuto di altri ma che ha saputo mescolare il post-punk con melodia e sperimentazione, non disdegnando un compiaciuto rumorismo. In realtà gli Swell Maps sono nati a Solihull (vicino Birmingham) addirittura nel 1972 grazie ai fratelli Epic Soundtracks (vero nome Kevin Paul Godfrey), e Nikki Sudden (vero nome Adrian Nicholas Godfrey). Il gruppo inizierà la carriera discografica vera e propria solo dopo l’inizio della scena punk, quando nel 1977 i due fratelli (insieme a Jowe Head (Stephen Bird), Biggles Books (Richard Scaldwell), Phones Sportsman (David Barrington) e John “Golden” Cockrill) pubblicarono il singolo “Read About Seymour” citato dal The Guardian come uno dei 25 classici singoli dell’epoca punk. Dopo aver registrato la loro prima sessione con John Peel, gli Swell Maps entrarono nello studio WMRS per registrare il loro primo album A Trip to Marineville, che verrà pubblicato nel 1979.
Già dalla foto di copertina che rappresenta una casa in fiamme, il gruppo ci rende consapevoli di quello che troveremo tra i solchi. Riduttivo parlare di new wave quando il gruppo è stato autore di un miscuglio anarchico di punk, psichedelia e avanguardia, anticipando in qualche modo anche l’attitudine lo-fi e parecchio indie rock che caratterizzerà il decennio successivo. Ascoltate per credere l’incedere della “Midget Submarines” inserita nel podcast, scritta e cantata da Sudden. Il gruppo si scioglierà dopo aver pubblicato il successivo Jane From Occupied Europe, lasciando il furore fiammeggiante soprattutto nelle mani incendiarie di Nikki Sudden. Nel 2021, Jowe Head ha dato vita a una nuova incarnazione della band, chiamata Swell Maps C21, che esegue il vecchio materiale in una formazione a sei che presenta tra le sue fila anche Luke Haines e David Lance Callahan.

Il podcast prosegue un altro gruppo di matti formato da due persone che stavolta semplicemente fanno finta di essere fratelli. Aaron Freeman e Mickey Melchiondo sono due ragazzi che dal 1984 fanno musica insieme sotto gli pseudonimi di Gene e Dean Ween. I due frequentavano la scuola media insieme a New Hope, Pennsylvania, iniziando ad incidere canzoni sin da quando avevano solo quattordici anni. Freeman ricorda il loro incontro così: “All’inizio non ci piacevamo affatto. Lui era un atleta, mentre io ero più un tipo da trench. Ma ci siamo seduti accanto a lezione di dattilografia ed entrambi abbiamo capito che ci piaceva la musica”. La loro band ha preso il nome dal loro falso cognome ed è stata un vero punto di riferimento per le loro parodie, a volte tanto esilaranti quanto scurrili, dei generi di moda. Tra vari trucchi elettronici, follie surreali, un’ostentata innocenza, i due hanno saputo creare una musica tanto orecchiabile quanto intelligente, prendendo di mira tutto e tutti.
Al duo piace mettere insieme mille spunti diversi, miscelarli, triturarli, cantare con voce deformata, una sorta di novelli Zappa del college. Dal 1984 al 1994, la formazione live dei Ween consisteva in Freeman alla voce solista e occasionalmente alla chitarra ritmica, Melchiondo alla chitarra solista e ai cori e una macchina DAT (Digital Audio Tape) che forniva le tracce di supporto preregistrate. I Ween riuscirono a firmare un contratto con una major come l’Elektra Records pubblicando il loro terzo lavoro Pure Guava il 10 novembre 1992. Il disco contiene il loro singolo di maggior successo, “Push th’ Little Daisies”, che gli fa guadagnare l’attenzione dei media, visto che il video è stato uno degli obiettivi principali di Beavis and Butt-Head di MTV. Nonostante il contratto major, l’album è stato sempre registrato sul loro casalingo quattro tracce senza perdere un briciolo della loro irrefrenabile fantasia, ascoltate “The Stallion Pt. 3” e non chiedetevi (per carità) dove poter trovare le parti 1 e 2…

Loro sono una band molto particolare ma meritevole di attenzione. Gli Skeleton Wrecks nascono dall’unione tra il polistrumentista di Northampton Gouédé Oussou, musicista che si è sempre mosso nel sottobosco inglese dedito all’industrial-noise con band come Terminal Cheesecake, e la cantante e bassista Dora Jahr (ex Distorted Pony, grande band noise di Los Angeles). Il loro album di esordio autointitolato è uscito nel 2015 e mi ha colpito moltissimo per la presenza di schitarrate epiche e psichedeliche dal vago sapore mediorentale.
L’esordio si snoda tra ricordi della trance californiana proposta da Bruce Licher (Savage Republic, Scenic) e compagnia negli anni ’80, naturalmente virate ai giorni nostri in chiave noise e altri perfetti affreschi noise-rock scritti ed eseguiti alla perfezione. Questo compendio di noise e darkwave dalla trascinante percussività e dalla straripante energia esce fuori in brani tiratissimi come la splendida apertura intitolata “Dunedin Star”.

Nel 2015 ci aveva particolarmente colpito l’album di esordio degli Algiers, un trio formato ad Atlanta, Georgia dal cantante Franklin James Fisher, insieme al chitarrista Lee Tesche e al bassista Ryan Mahan. In realtà i tre si dividevano diversi altri strumenti infilando nelle 11 tracce del disco una serie di suoni estremamente interessanti tra battiti di mani e chitarre sferzanti, tra ritmi industrial ipnotici e scuri arricchiti da un incedere vocale gospel e un impianto new wave. Due anni dopo, l’atteso seguito intitolato The Underside Of Power fortunatamente aveva confermato tutto quello che di buono si era detto della band, che ha reso il suo suono ancora più poderoso grazie all’inserimento in pianta stabile dell’ex Bloc Party, Matt Tong, dietro ai tamburi.
Nel 2020 era quindi molto atteso il terzo lavoro della band, quello che doveva darci l’esatta entità di una crescita esponenziale. Il quartetto di Atlanta non ha affatto deluso le aspettative, anzi, forse con There Is No Year gli Algiers hanno messo nei solchi la loro versione più matura e consapevole. Il loro mettere in primo piano l’impegno sociale anticapitalista, antirazzista e antifascista li ha resi in qualche modo unici. La potente ed empatica voce soul di Fisher unita ad un impianto musicale che unisce post punk e gospel con precisi innesti di elettronica ha reso questo gruppo uno dei più importanti degli ultimi anni per emozioni e contenuti. Difficile scegliere un brano tra i tanti dove si può davvero toccare con mano l’incredibile manifesto rabbioso, potente e impegnato della band. Nella “Hour Of The Furnaces” inserita nel podcast la voce soul dello splendido Fisher sa essere allo stesso tempo per l’ennesima volta tanto dirompente quanto emozionale.

Quante volte abbiamo parlato su queste pagine della straordinaria scena post-rock britannica che faceva capo soprattutto su un’etichetta come la Too Pure, capace in quel decennio di sfornare una serie di album (da PJ Harvey ai Moonshake) di un’impressionante ed elevatissima media qualitativa. Ma ad incidere per l’etichetta indipendente londinese non erano solo artisti che si affacciavano nello splendente universo delle contaminazioni ma c’era anche un musicista e cantante gallese, Anthony Reynolds, che alla fine del 1993 andò a vivere a Londra per fondare insieme al chitarrista Matthew Scott un gruppo chiamato semplicemente Jack. I riferimenti della band erano soprattutto gli amori adolescenziali di Reynolds, su tutti Scott Walker e David Bowie. Nell’estate del 1996, il gruppo entra in studio con un produttore importante come Peter Walsh, che aveva lavorato proprio con Walker oltre che con un gruppo già affermato come i Simple Minds.
L’album di debutto Pioneer Soundtracks, nonostante l’ottima stampa e il notevole successo delle tournée in Europa e nel Regno Unito, non riuscì mai ad ottenere una buona diffusione e di conseguenza le vendite furono modeste. Il disco in realtà andrebbe sicuramente riscoperto, la splendida voce da crooner di Reynolds, le atmosfere ora rarefatte, ora più sostenute che hanno fatto insirire il gruppo addirittura nel calderone stratificato del brit-pop. L’andamento quasi Tindersticks di “Dress You In Mourning” ci mostra un gruppo che avrebbe meritato molto di più. Un altro disco per la Too Pure due anni dopo, un ultimo nel 2002, ambedue senza la gratificazione che avrebbero meritato e portatori di una rassegnazione che ha portato allo scioglimento. Reynolds proseguirà con altri progetti e collaborazione e con diversi album in solitaria. Un’edizione deluxe e restaurata in 2 CD di Pioneer Soundtracks è stata pubblicata dalla Spinney Records nel marzo 2007.

Ho sempre amato le canzoni in bassa fedeltà, pervase da un ambientazione decadente, da una malinconia che non raramente viene attraversata da un pungente sarcasmo. Lui per molti anni si è nascosto dietro il moniker di Smog, ma dal 2007, dopo aver pubblicato diversi album notevoli ha deciso di firmarsi semplicemente con il suo vero nome, Bill Callahan. Esponente di punta di un certo tipo di cantautorato lo-fi insieme a Will Oldham o al compianto Jason Molina, Callahan ha sempre continuato a sfornare album mai meno che eccellenti. Le sue composizioni sono semplici ma mai banali, suonate in punta di dita, sussurrate, attraversate da anni di folk, country, da storie di vita vissuta da raccontare con intelligente sarcasmo. Sornione come sempre, anche la nuova condizione familiare di marito e padre non ha inficiato certo la sua capacità di racconto, visto che Callahan continua a cantare e suonare (superbamente) con la consapevolezza dello stregone che sa come ammaliare chiunque lo ascolti.
Julius Caesar è uscito nel 1993 a nome Smog, e presenta al suo interno una grande diversificazione stilistica, dalla ballata country al rock indolente, dalle ondate lisergiche alle suggestioni decadenti, con il violoncello a creare spesso atmosfere desolate. Il disco mostra un lato più orchestrale, immerso però in atmosfere inquietanti e claustrofobiche. “Chosen One” mostra ancora una volta l’indiscusso talento di uno degli migliori songwriters della sua generazione, ispirato nella sua sarcastica malinconia. Nel 2007 ha abbandonato lo pseudonimo di Smog per incidere album a suo nome. Lo scorso anno ha pubblicato una Peel Session registrata nel Dicembre 2001 negli studi della BBC quando ancora si esibiva sotto il nome di Smog.

“Ero nervosissimo, stralunato e agitato, appena sceso dall’aereo dal Kentucky. Era Los Angeles, più di vent’anni fa, e avevo volato verso ovest per assistere a una sessione di registrazione di Johnny Cash nello studio del produttore Rick Rubin. Quando arrivai, Rubin si era appena alzato dal letto (era il primo pomeriggio); mi presentò subito a Cash, che io chiamavo “Mr. Cash” per deferenza. La risposta di Cash fu rapida e decisa: “Non chiamarmi signor Cash. Chiamami Johnny o J.R.”. Rubin gli disse che avevo scritto una delle canzoni su cui stavano lavorando e Cash disse: “Lavoriamo su quella canzone adesso, allora”. E siamo scesi in studio. Ed è lì che ho conosciuto Ferg.” Così Will Oldham, o se preferite Bonnie “Prince” Billy descrive il suo primo incontro con il gentile e carismatico David Ferguson, che nel 1994, insieme al cantautore John Prine, ha creato il Butcher Shoppe, uno studio di registrazione situato accanto a un ex impianto di confezionamento della carne sul fiume Cumberland, a Nashville, Tennessee, che però fu costretto alla chiusura nel 2020.
L’amicizia tra Will e Ferg è diventata più stretta tanto che il produttore lo ha invitato a Nashville per alcune sessions di scrittura nel suo studio casalingo insieme ad altri musicisti come Tim O’Brien (mandolino), Stuart Duncan (violino), Russ Pahl (chitarra elettrica), Pat McLaughlin (mandolino), Steve Mackey (basso) e Fred Eltringham (batteria/percussioni). All’inizio delle sessioni Ferg aveva detto a Oldham: “Non voglio fare un disco country, fai la tua roba, Will”, e il risultato è stato The Purple Bird, un disco sicuramente senza le tipiche ombre cui eravamo abituate ma che ci regala meraviglie come la “Turned To Dust (Rolling On)” inserita nel podcast.

La londinese Anna B Savage nello straordinario esordio intitolato A Common Turn aveva messo a nudo le vulnerabilità di ognuno di noi, più o meno nascoste, e le aveva espresse con sussurri e potenza in 10 tracce composte da disarmante sincerità, tensioni e rilasci, ansie e catarsi. La recensione che ho avuto il privilegio di scrivere per OndaRock terminava così: “Non possiamo sapere come proseguirà la sua carriera, fare previsioni in campo musicale è sempre estremamente difficile e spesso si va incontro a brutte figure, ma questo è senza dubbio un esordio ammaliante”. I dubbi sulla prosecuzione di un percorso importante sono stati dissipati dalla pubblicazione di in|FLUX, che due anni fa ha confermato tutto quello che di buono si era detto sul suo conto. Ad aiutare la songwriter c’era Mike Lindsay (Tunng) che era riuscito a portarla per mano come e più della precedente collaborazione con William Doyle ad un uso sapiente dell’elettronica.
C’è sempre un po’ di paura, nel caso di artisti che si è appena imparato ad amare, di un qualcosa che possa cambiare in peggio le carte in tavola. Anna B Savage si è trasferita nelle campagne irlandesi e per il terzo album si è fatta aiutare da un produttore importante come John “Spud” Murphy che questa volta ha dato un taglio folk alle composizioni della talentuosa songwriter chiamando ad aiutarla musicisti folk come Anna Mieke o Cormac MacDiarmada dei suoi amati Lankum per creare un mondo fatto di natura, strumenti acustici, archi e fiati. La splendida “Lighthouse” inserita nel podcast ci mostra una nuova sfaccettatura di un’artista davvero talentuosa, capace di alternare momenti di quiete a attimi di intensità emotiva assoluta. Una straordinaria conferma.

Cambiamo atmosfere andando a trovare una musicista abbastanza nota per chi frequenta l’ambiente legato all’improvvisazione. La chitarrista Jules Reidy si è sempre distinta non solo per il suo talento ma anche per la sua visione musicale ad ampio spettro. Alcuni lavori solisti usciti per la Black Truffle di Oren Ambarchi, uno splendido album, Dessus Oben Alto Up, pubblicato lo scorso anno e suonato a quattro mani con il nostro Andrea Belfi. Stavolta l’australiana di stanza a Berlino, ha fatto tutta da sola. Il dramma di vivere la fine di una relazione importante e allo stesso tempo la spinta verso un cambiamento importante nella sua identità personale e la riscoperta del suo fascino per il misticismo, l’ha portata ad incidere un nuovo album intitolato Ghost/Spirit, pubblicato da un’etichetta importante come la Thrill Jockey. “La mia esperienza personale con il misticismo è intuitiva e si esprime soprattutto attraverso la musica. Comprendo e vivo la pratica come una lotta e un’espressione del mio rapporto con l’esposizione della vita e come uno strumento per trascenderla”
Il disco è stato concepito come una sorta di opera unica divisa in due parti, una sorta di arco narrativo che comunica un viaggio verso la trascendenza, con il lato A “Ghost” che invoca sentimenti di perdita e assenza, mentre il lato B “Spirit” si estende fino a comprendere qualcosa di più divino nelle sue armoniche scintillanti e nelle vibrazioni lisergiche. Invece di avere musicisti ospiti o di sessione sull’album, Reidy ha ricevuto contributi da diversi artisti che hanno suonato la batteria, il violoncello e il basso. Una musica che in alcune tracce si fa quasi “pop”, con la voce della Reidy filtrata dall’autotune, probabilmente il punto debole dell’album. Tra folk trascendente e sperimentazioni microtonali, il disco è davvero molto interessante, basti ascoltare l’iniziale “Every Day There’s a Sunset” inserita in scaletta.

È sempre un viaggio emozionante quello del collettivo The Heliocentrics guidato dal batterista Malcom Catto. Il combo britannico continua nel loro percorso evolutivo, un flusso estatico, ipnotico, che l’ha portato ad unire in uno straordinario melting pot jazz, psichedelia, funk, afro, dub e musica etnica. La loro miscela musicalerisulta come sempre esplosiva e cinematica, ritmica ed onirica. Un groove trascendente che esalta le multiformi e caleidoscopiche alchimie sonore del collettivo, messe in mostra già dal loro secondo album, quel 13 Degrees Of Reality in cui la band aveva messso a frutto le collaborazioni con due mostri sacri come Mulatu Astatke e Lloyd Miller arrivate dopo l’esordio di Out There.
Nel loro penultimo lavoro in studio, A World Of Masks, uscito nel 2017, gli innesti del violino di Raven Bush, di una nuova sezione addizionale di fiati, e soprattutto della voce della cantante d’origine slovacca Barbora Patkova, hanno dato un’ulteriore poderosa spinta al suono del gruppo. La voce della Patkova è stata una sorta di nuova base su cui poter costruire le caleidoscopiche alchimie sonore del collettivo, sempre più multiformi, in un groove trascendente capace di abbracciare tutte le possibili latitudini, come dimostra l’apertura di “Made Of The Sun”.

Come sapete benissimo l’hip-hop non è sicuramente il mio “ambito di competenza” (ammesso e non concesso che io ne abbia uno…), ma ogni tanto ci sono lavori ascrivibili nel genere (come Sound Ancestors di Madlib lo scorso anno) che riescono a colpirmi in maniera particolare. In ogni caso nel corso degli anni il lavoro di Brian Burton aka Danger Mouse è stato piuttosto trasversale, visto che dopo l’esordio con gli Gnarls Barkley ha collaborato come musicista e come produttore insieme a Black Keys, Norah Jones, Jack White, Sparklehorse, Parquet Courts, Red Hot Chili Peppers e Michael Kiwanuka, oltre ai Danger Doom creati insieme al compianto Daniel Dumile aka MF DOOM.
Tariq Trotter aka Black Thought è un’istituzione del genere visto che da sempre è voce dei The Roots. La prima idea per un album collaborativo è scattata nella mente dei due musicisti nel 2017 ma Cheat Codes, tra i vari impegni dei due e la solita pandemia di mezzo, ha visto la luce solo nell’agosto del 2022. L’album vede le collaborazioni di una sorta di dream team: Raekwon & Kid Sister, Michael Kiwanuka nella straordinaria “Aquamarine” che ascoltate nel podcast, A$AP Rocky & Run The Jewels, Joey Bada$$, Russ & Dylan Cartlidge, Conway the Machine, e perfino un contributo postumo di MF DOOM. Le basi e i campioni di Danger Mouse si sposano perfettamente con la metrica e il flow impareggiabile di Black Thought, dando vita ad un album estremamente riuscito, di grande ispirazione e di enorme classe.

Viviamo in tempi oscuri, dove anche chi teoricamente vorrebbe la pace agisce senza scrupoli e ricattando un paese invaso, dove chi si indigna per una carneficina e lo sterminio di un popolo viene tacciato di antisemitismo, dove la difesa dei diritti civili e delle minoranze viene messa costantemente in pericolo. Chiudere il podcast con un brano dedicato a un oppositore dell’apartheid in Sudafrica, leader del Black Consciousness Movement torturato e ucciso dalla polizia nel 1977 era una sorta di obbligo e un monito affinché certe storie non debbano ripetersi. Stephen Biko era e resta un simbolo di lotta. Fa venire un brivido pensare che Peter Gabriel ha pubblicato la canzone che chiude il suo terzo lavoro solista solo due anni dopo la morte di Biko.
Spaventoso pensare che un obbrobrio come l’apartheid è così vicino nel tempo, ma sembra non aver insegnato nulla, soprattutto in tempi dove algoritmi e AI possono condizionare il pensiero di troppe persone deboli. Influenzata dal crescente interesse di Gabriel per gli stili musicali africani, “Biko” è caratterizzata da uno scarno ritmo suonato da tamburi brasiliani e percussioni vocali, oltre che da una chitarra distorta e da un suono sintetizzato di cornamusa. Il testo, che include frasi in Xhosa, descrive la morte di Biko e la violenza del governo dell’apartheid. Naturalmente la canzone è stata vietata in Sudafrica, il governo la considerava una minaccia per la sicurezza, ma è stata un punto di riferimento personale per Gabriel, diventando una delle sue canzoni più popolari e dando il via al suo coinvolgimento nell’attivismo per i diritti umani. Ebbe anche un enorme impatto politico e ha ispirato progetti musicali come Sun City ed è stata definita “probabilmente la più significativa canzone di protesta anti-apartheid non sudafricana”. Qui la troviamo in un’intensa performance dal vivo immortalata su Plays Live, il suo primo doppio album dal vivo pubblicato nel 1983.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload del sito e, ormai da tempo, è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Nel prossimo episodio troverete la consueta alternanza tra novità, capolavori della storia del rock e dischi/artisti da riscoprire. Tra gli altri ci sarà un gruppo importante per lo sviluppo del rock USA negli anni ’90 come gli Squirrel Bait, il ritorno degli scozzesi Mogwai, il nuovo The Murder Capital, songwriter straordinari come il compianto Elliott Smith e Micah P Hinson, il suono onirico dei Bark Psychosis, quello unico dei Morphine, il nuovo splendido The Delines e un finale elettronico a sorpresa.
Il tutto sarà, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Per suggerimenti e proposte, scrivetemi senza problemi all’indirizzo e-mail stefano@stefanosantoni14.it.
Potete ascoltare o scaricare il podcast anche dal sito di Radio Rock The Original cliccando sulla barra qui sotto.
Buon Ascolto
TRACKLIST
1. SQUID: Crispy Skin da ‘Cowards’ (2025 – Warp Records)
2. fIREHOSE: Brave Captain da ‘Ragin’, Full-On’ (1986 – SST Records)
3. SWELL MAPS: Midget Submarines da ‘A Trip To Marineville’ (1979 – Rough Trade)
4. WEEN: The Stallion Pt. 3 da ‘Pure Guava’ (1992 – Elektra)
5. SKELETON WRECKS: Dunedin Star da ‘Skeleton Wrecks’ (2015 – Gibbon Envy Recordings)
6. ALGIERS: Hour Of The Furnaces da ‘There Is No Year’ (2020 – Matador)
7. JACK: Dress You In Mourning da ‘Pioneer Soundtracks’ (1996 – Too Pure)
8. SMOG: Chosen One da ‘Julius Caesar’ (1993 – Drag City)
9. BONNIE “PRINCE” BILLY: Turned To Dust (Rolling On) da ‘The Purple Bird’ (2025 – No Quarter)
10. ANNA B SAVAGE: Lighthouse da ‘You & I Are Earth’ (2025 – City Slang)
11. JULES REIDY: Everyday There’s A Sunset da ‘Ghost/Spirit’ (2025 – Thrill Jockey)
12. THE HELIOCENTRICS: Made Of The Sun da ‘A World Of Masks’ (2017 – Soundway)
13. DANGER MOUSE & BLACK THOUGHT: Aquamarine (Feat: Michael Kiwanuka) da ‘Cheat Codes’ (2022 – BMG)
1. PETER GABRIEL: Biko da ‘Plays Live’ (1983 – Charisma)