Eccoci arrivati al momento tanto amato ed odiato allo stesso tempo, quello in cui si cerca di incasellare gli ascolti preferiti degli ultimi 12 mesi. Compilare una classifica diventa sempre ogni anno più difficile visto il numero di uscite sempre maggiore ed una frammentazione incredibile del mercato discografico. Se pensate che le classifiche non abbiano senso, beh, è davvero difficile darvi torto visto che da una parte sono legate a doppio filo alla nostra sensibilità, dall’altra è una pratica spesso egocentrica e soggetta a continue revisioni. Però, c’è anche da dire che, opinione personale, è sempre stimolante e divertente sia redigerle che leggerle.
La mia personale opinione è che le classifiche di fine anno andrebbero prese sempre e comunque come stimolo per la nostra curiosità di famelici ascoltatori-consumatori di musica. Come detto, è sempre complicato mettere in un qualunque ordine le proprie preferenze. Gli ascolti sono diversi e diversificati e se alcuni album possono essere ascoltati con una certa “leggerezza”, altri hanno bisogno di uno stato d’animo particolare o di un diverso momento della giornata per essere assaporati a pieno, momenti che non sempre possiamo avere a disposizione nella nostra frenetica quotidianità.
Per giunta, come ormai è chiaro da qualche anno, le modalità di ascolto della musica sono cambiate in maniera drastica: adesso abbiamo la possibilità di trovare letteralmente tutto a disposizione, in qualsiasi momento ed in qualsiasi modo. I servizi di streaming hanno giorno dopo giorno soppiantato sia la vendita dei cd-lp che quella del download della musica “liquida”, lasciando la vendita del supporto fisico ai (quasi) soli appassionati, che sempre più spesso prediligono il caro vecchio vinile, anche se nell’ultimo anno il prezzo di questo supporto è aumentato in maniera assolutamente sconsiderata, in relazione anche alla qualità della stampa.
Fare una classifica dei migliori album dell’anno, visto il numero gigantesco di uscite annuali, è un’impresa al limite del fantascientifico. Probabilmente a ragione, qualcuno lo considera anche un inutile esercizio di stile: difficile stabilire gerarchie, e soprattutto, fissare i “giusti” parametri da usare. Quali sarebbero? In base a cosa?
Come detto in precedenza è letteralmente impossibile solo cercare di ascoltare tutto: troppe le pubblicazioni e troppo poco il tempo quotidiano a disposizione per ascoltare nuova musica con l’attenzione che spesso meriterebbe. Anche quest’anno ci saranno sicuramente alcuni album che trovate nei piani bassi della classifica solo perché hanno avuto la sfortuna di avere meno ascolti a disposizione e meno possibilità di essere apprezzati. Prendete la classifica per quello che è, visto che la realtà di Sounds & Grooves è davvero pochissima cosa (visto che sono l’unico a gestirla nella sua totalità) se paragonata a corazzate del mondo delle webzines musicali come OndaRock (con cui collaboro da qualche anno), SentireAscoltare dello stimatissimo Stefano Pifferi, Distorsioni (solo per citarne alcune), o gli splendidi blog personali di autentici giornalisti professionisti ed enormi conoscitori di musica come Eddy Cilìa, Federico Guglielmi o Carlo Bordone, tanto per citare i primi che mi vengono in mente.
In questo spazio, come quasi ogni anno, ho voluto semplicemente buttare giù, come appuntandoli su un taccuino, gli album che negli ultimi 12 mesi ho ascoltato di più, e che sono riusciti maggiormente a coinvolgermi, pero poi condividere con voi la mia interpretazione, il mio modo di sentire. Nonostante ci siano un milione di classifiche sparse nel web, credo che da ognuna di queste ci sia sempre da qualcosa da imparare, uno o più nomi da annotare per poi approfondire con curiosità.
In calce ai 50 album che più hanno segnato la mia annata musicale, troverete un’altra lista composta da outsiders, album che non sono entrati nella Top 50, sfiorando la mia personale eccellenza, ma che per molti di voi potrebbero invece essere (giustamente) degni della portata principale. Nei titoli che formano questa lunga lista, ce n’è per tutti i gusti. C’è sempre un oceano di musica da scoprire, e molti (me compreso) non sono riusciti a rinunciare al fascino irresistibile dei tesori (o presunti tali) sommersi, avendo come risultato un’enorme varietà di nomi all’interno delle singole playlist.
Discorso a parte meritano le ristampe e quelle etichette (Light In The Attic, Superior Viaduct, Numero Group, Cherry Red tanto per citarne alcune) che hanno riportato alla luce o ampliato in maniera scintillante autentici capolavori, alcuni ripescati dall’oblio, altri semplicemente tirati a lucido. Ho compilato una piccolissima classifica anche delle mie preferenze in tal senso.
Ogni classifica dei migliori album dell’anno porta una scintilla per rinvigorire quella fiamma appassionata dentro ognuno di noi. Da parte mia un abbraccio speciale, consentitemelo, va sempre a quella che è la mia “famiglia” da sempre, prima in FM e poi sul web, ovverosia quella splendida podradio chiamata Radiorock.TO The Original.
#everydaypodcast
#1
FYEAR
Fyear (Constellation)
Quest’anno ho voluto premiare con la prima posizione della mia classifica uno dei dischi più originali ed intriganti degli ultimi anni pubblicato dalla Constellation e che vede come protagonista principale un musicista importante come Jason Sharp, da anni una colonna portante della comunità musicale avant-jazz, sperimentale e improvvisata di Montréal. Sassofonista e compositore elettroacustico, il suo lavoro da solista ha prodotto un insieme unico di musica unendo la padronanza della tecnica estesa del sassofono con microfoni personalizzati, elettronica e sintesi modulare. Kaie Kellough è un’acclamato poeta e scrittore, la cui raccolta di poesie Magnetic Equator ha ricevuto il Griffin Poetry Prize 2020 (il principale premio di poesia canadese). Oltre alla scrittura, negli ultimi due decenni la sua pratica principale sono stati lavoro sonoro e le performance dal vivo in innumerevoli manifestazioni di spoken word e multi-media, sperimentazioni e collaborazioni. Dopo diversi anni di collaborazione, sviluppo, workshop, commissioni ed esibizioni in configurazioni minori, i due artisti hanno creato e perfezionato il progetto FYEAR che, nella sua definitiva configurazione, vede la partecipazione della poetessa/scrittrice Tawhida Tanya Evanson (voce) e dei musicisti Jesse Zubot (violino), Joshua Zubot (violino), Joe Grass (pedal steel), Stefan Schneider (batteria), Tommy Crane (batteria) oltre all’artista/designer Kevin Yuen Kit Lo (video performance e visual design). Il risultato è un album tanto sorprendente quanto complicato da definire e raccontare, dove il collettivo unisce improvvisazione e composizione, strumentazione elettronica e acustica, recitazione vigorosa e vocalizzazione astratta, bilanciando una struttura intensiva con un un intenso spirito esplorativo. Una sorta di caos controllato ed incredibilmente coeso che ci trascina tra alt-jazz e post-rock in un personale ed inedito microcosmo musicale. Una prima posizione meritatissima.
Ascolta: Pt II Mercury Looms
#2
BIG | BRAVE A Chaos Of Flowers (Thrill Jockey)
Se solo recentemente mi sono riavvicinato a certe sonorità di musica che potremmo definire metal, il merito, tra gli altri, è dei BIG|BRAVE, trio canadese composto da Robin Wattie (chitarra e voce), Mathieu Ball (chitarra) e Tasy Hudson (batteria). Loro si collocano in quel nebuloso spazio tra il metal e la sperimentazione, alternando una schiacciante e drammatica pesantezza con una leggerezza eterea e meditativa, in una modalità che pochi dei loro colleghi riescono a percorrere con successo. Dopo aver sperimentato in ambito dark folk insieme ai compagni di etichetta The Body, lo scorso anno i tre sono tornati a far sentire le loro sonorità ossessive, pesanti e distorte con il loro sesto lavoro in studio intitolato Nature Morte, con cui pensavo che avessero raggiunto l’apice del loro percorso e che aveva raggiunto la Top 30 della mia classifica. Un anno dopo ecco tornare il gruppo di Montreal con un nuovo album intitolato A Chaos Of Flowers, che sembra collegarsi al lavoro precedente già dalla copertina ma che stavolta ho trovato talmente emozionante da posizionarlo al #2, quasi in vetta. Proprio lo sfondo bianco dell’artwork (quasi una controparte speculare dell’album di un anno fa) rivela l’anima meno violenta del disco, che pur collegandosi in parte al pericoloso e dilatato crocevia tra ambient, metal sperimentale e avant-rock del gruppo che aveva raggiunto l’apice con il lavoro precedente, qui si evolve in un mondo dove il loro “minimalismo estremo” si estende per evidenziare una modalità poetica legata all’emarginazione e alle esperienze che ci rendono vulnerabili. La chitarrista-cantante Robin Wattie ha voluto attingere a piene mani da alcune poesie di donne le cui parole hanno rispecchiato le esperienze di chi, o per la propria origine o per aver sfidato norme e pensiero comune della società, è stata spesso emarginata dalle convenzioni culturali. “canon : in canon” è un brano dilatato tra droni e la chitarra suggestiva dell’ospite Marisa Anderson che con il suo tocco tra folk e blues rende la voce di Wattie mai così intima, limpida e cristallina. A Chaos Of Flowers, con la sua anima tanto intima e sofferta quanto potente e apparentemente monolitica, ci mostra invece un gruppo ancora in crescita, pronto ad intraprendere un nuovo percorso di enorme intensità emotiva.
Ascolta: canon : in canon
#3
DAVID LANCE CALLAHAN Down To The Marshes (Tiny Global Productions)
Sul gradino più basso del podio troviamo un artista che da quando ha iniziato la sua carriera solista ha saputo pubblicare solo album meravigliosi. David Lance Callahan è un personaggio ed un musicista straordinario, fondatore a metà anni ’80 dei Wolfhounds che parteciparono a quella compilation iconica chiamata C86 e, successivamente, creatore della sigla Moonshake che, insieme ad altre band della scuderia Too Pure, ha contribuito con fantasia energica a creare una caleidoscopica scena post-rock in Gran Bretagna. Dopo aver riformato con successo qualche anno fa i Wolfhounds, la pandemia ha portato David a metter mano a molti brani che aveva preparato e a pubblicare, dopo oltre 30 anni di attività, i suoi primi, splendidi album solista: English Primitive I e II che hanno raggiunto la vetta delle mie playlist annuali. Molto atteso quindi era il terzo capitolo della sua carriera solista, un album intitolato Down To The Marshes. Il disco, registrato a Valencia con il fido collaboratore Daren Garratt (Pram, The Fall, The Nightingales), mostra i consueti elementi di musica folk, africana occidentale, blues, indiana e post-punk, ma amplia la tavolozza sonora con l’aggiunta di una sezione di fiati e di un quartetto d’archi a sottolinearne le melodie. I testi si mostrano più ottimistici del solito senza disdegnare una punta di sarcasmo nel sottolineare, come sempre, lo stato attuale profondamente preoccupante del Regno Unito (e del mondo). Anche il suo terzo lavoro ci conferma il talento e lo stato di grazia di uno degli artisti più personali e creativi del Regno Unito, capace di creare un suo genere con le sue regole.
Ascolta: Robin Reliant
#4
MOUNT EERIE Night Palace (P.W. Elverum & Sun, Ltd.)
Alla posizione #4, ai piedi del podio, troviamo un artista che dal 2016 ha provato ad esorcizzare anche in musica la drammatica scomparsa della moglie, l’artista Geneviève Castrée, deceduta per un cancro al pancreas. Sto parlando di Phil Elverum, che dopo gli splendidi e strazianti A Crow Looked At Me e Now Only è tornato a fine 2024 con un nuovo splendido lavoro a nome Mount Eerie. Innamorato da sempre del territorio in cui è nato, cresciuto e in cui ha sempre vissuto, Mount Eerie è un luogo che esiste davvero, nello stato di Washington, ai piedi della città di Anacortes nell’isola di Fidalgo, e di una serie di vecchi strumenti analogici, Elverum ha sempre prediletto l’approccio indipendente, anche per quanto riguarda la produzione e il packaging dei suoi dischi. Stavolta ha fatto le cose in grande, copertina realizzata dallo stesso Elverum che ritrae la montagna, due vinili per 82 minuti di musica, un poster apribile, la biografia, le fotografie dei luoghi dove l’album è stato realizzato e i testi. 26 tracce, e che tracce, che probabilmente rappresentano il capolavoro assoluto di un artista che ci ha accompagnato nelle ultime tre decadi dall’inizio dell’esperienza The Microphones nel 1999. Night Palace rappresenta la maturità di un songwriter che ha superato momenti tragici e anche un matrimonio durato appena sei mesi con l’attrice Michelle Williams, approdando ad un disco che rappresenta tutte le sue anime tra blues, indie rock, lo-fi classico ed estroso, psichedelia, e imprevedibilità visto che il brano più breve dura meno di un minuto e quello più lungo più di dodici minuti. “Huge Fire” è solo una delle meraviglie di un disco non certo facile, ma che nasconde (nemmeno troppo) momenti di bellezza indicibili.
Ascolta: Huge Fire
#5
ONEIDA Expensive Air (Joyful Noise)
Saliamo ancora di una posizione trovando in 5° posizione il ritorno di una delle band cardine di un certo tipo di avant-rock. Due anni fa Fat Bobby Matador (chitarra, organo e voce, Kid Millions (batteria), Shahin Motia (chitarra), Hanoi Jane (chitarra e basso) e Barry London (synth e organo) erano tornati in maniera prepotente a far risuonare il nome degli Oneida con un album trascinante come Success, capace, come sempre, di entrare facilmente nella mia playlist annuale. E se quel disco era stato inciso quasi per gioco, sfruttando la voglia di suonare di nuovo insieme dopo il lungo blocco dovuto all’emergenza pandemica, stavolta le sedute di registrazione del nuovo lavoro in studio sono state relativamente più calcolate. Fat Bobby Matador, l’unico dei cinque a vivere a Boston, ha abbozzato alcune canzoni e le ha spedite agli altri quattro nelle loro residenze di NYC. Nemmeno a dirlo, le tracce erano talmente buone che sono state completate, rifinite e confezionate in un nuovo lavoro intitolato Expensive Air. Il “solito” compendio meraviglioso ed irresistibile di punk, garage, kraut, beat e psichedelia, che da qualcuno viene tacciato di “compitino fatto da un gruppo bollito” ma francamente a me fa tutt’altro effetto. 34 minuti di tensione altissima creati da un gruppo che (fortunatamente per noi) non accenna a cali di creatività. Provate a non saltare dalla sedia ascoltando “Salt” e poi ditemi se gli Oneida non hanno sfornato un altro grande disco.
Ascolta: Salt
#6
CHRIS CORSANO The Key (Became The Important Thing [& Then Just Faded Away]) (Drag City)
Cambiamo completamente atmosfere andando a trovare al #6 un personaggio notissimo per chi frequenta l’ambiente legato all’improvvisazione. Il batterista e polistrumentista Chris Corsano si è sempre distinto non solo per il suo talento ma anche per la sua visione musicale ad ampio spettro. Corsano ha suonato con il sassofonista Paul Flaherty per più di vent’anni, ha fatto parte dei Rangda (trio con Sir Richard Bishop e Ben Chasny), ed ha collaborato nel corso della sua carriera con Joe McPhee, Dredd Foole, Thurston Moore, Jim O’Rourke, Bill Orcutt, Bill Nace, Nels Cline, Evan Parker, Björk e dozzine di altri musicisti nei progetti più disparati. Tra i circa 150 album a cui ha contribuito il versatile musicista classe 1975 negli ultimi 25 anni, solo sei sono stati accreditati al solo Chris, il che rende la pubblicazione di questo The Key (Became The Important Thing [& Then Just Faded Away]) un raro caso in cui è riuscito ad elaborare in profondità la propria visione musicale. Un lavoro che porta a compimento l’unione tra l’improvvisazione libera e il rumorismo con esperimenti acustici e idee di riff hard rock e post-punk. Sei brani per poco più di mezz’ora di musica che non lasciano certamente indifferenti, tre tracce dove Corsano agisce come una vera band grazie a sovraincisioni multitraccia di chitarra-basso-batteria-elettronica e altre tre dove invece troviamo percussioni soliste improvvisate dal vivo in studio. Un processo esplorativo legato quasi esclusivamente a ridefinire i confini del suo complesso drumming, visto che il linguaggio del funambolico batterista si apre a nuove avventurose ricerche musicali che spaziano dalla psichedelia al tipico motorik con sfumature garage.
Ascolta: I Don’t Have Missions
#7
JULIA HOLTER Something In The Room She Moves (Domino)
Continuiamo a scorrere la classifica trovando al #7 Julia Holter, senza dubbio una delle songwriter più talentuose della sua generazione. Californiana, studente in pianoforte e appassionata di letteratura greca, ha già dagli inizi, preferito un approccio onirico e minimalista, cambiando lentamente pelle, album dopo album, aggiungendo beat elettronici, elaborazioni sonore fino ad approdare ad un maturo eclettismo pop. Se già Loud City Song nel 2013 aveva colpito per la piccola rivoluzione sonora dell’artista californiana, tra Laurie Anderson e Kate Bush, Have You In My Wilderness due anni dopo ne ribadisce il cambiamento. Dal riconoscimento come autrice e musicista colta, il passo fatto nel 2015 ha consolidato l’ingresso della Holter in una sorta di paradiso indie-mainstream in cui ha avuto i suoi riconoscimenti anche dal punto di vista commerciale. Dopo che, con Aviary nel 2018, ha dato vita ad un lavoro complesso e sperimentale, assemblato alla perfezione con cui ha dimostrato per l’ennesima volta il suo straordinario talento, la Holter torna dopo una lunga pausa dovuta alla pandemia e alla maternità con un nuovo lavoro di una bellezza accecante, elegante e magico, ispirato proprio dal capolavoro di Robert Wyatt che abbiamo ascoltato in precedenza. In Something in the Room She Moves, la Holter elabora in modo vivido la complessità, la profondità e lo stupore di una confluenza di esperienze diverse vissute negli ultimi anni. Basandosi su uno spirito di giocosità, la californiana ha scavato a fondo in uno stile di produzione che ricorda le sue prime registrazioni, trovando nella notte il momento ideale per sperimentare la sua creatività.
Ascolta: Spinning
#8
KEE AVIL Spine (Constellation)
“Scrivere canzoni, per me, è come scolpire. Nasce da una parola, un’emozione o un suono iniziale, che poi costruisco, modellandolo in una forma più raffinata, incollata in una struttura artificiale. Altre volte il mio ruolo è quello di scrostarla, raschiarne l’esterno, per rivelare il suo stato naturale e la sua parte all’interno del tutto.” Così si presentava due anni fa la cantautrice, chitarrista e produttrice di Montréal Vicky Mettler, al suo esordio per l’etichetta Constellation sotto il nome di Kee Avil. La Mettler combina chitarra, voce, elettroacustica e produzione elettronica per creare assemblaggi di canzoni che sembrano collassare da un momento all’altro ma che allo stesso tempo riescono ad evolversi come resina appiccicosa che raccoglie e disperde elementi disparati lungo il suo percorso. Se già ci aveva colpito l’esordio chiamato Crease, un ascolto non certo facile dove Kee Avil concretizzava la sua musica in una chitarra post-punk lavorata a cesello, in un’elettronica sinuosa di fascia bassa, in una tavolozza di microcampionamenti organici e digitali capaci di creare ritmi alternati e propulsivi e nell’intimità ansiosa del suo lirismo e della sua voce finemente lavorati, anche il nuovo Spine colpisce nel segno. Anche qui ci sono canzoni che non lasciano molto spazio alla melodia, che spiazzano non appena sembra che abbiamo trovato una direttrice. Tra post-punk, electro-industrial e avant-pop, quelli del secondo lavoro di Vicky Mettler sono brani forse più convinti e convincenti, finemente lavorati, meticolosamente assemblati e pronti a celare la realtà. Un album sperimentale che si posiziona al #8 e che ci conferma Kee Avil come un’artista estremamente intrigante.
Ascolta: Felt
#9
KEELEY FORSYTH The Hollow (130701)
Keeley Forsyth nasce come attrice di teatro, salvo poi partecipare a numerose serie tv britanniche. Ma è sempre stata un’artista a 360 gradi, appassionata di poesia e di musica, si è ritrovata a cantare i suoi versi accompagnandosi da uno scheletro musicale. Profondamente ancorata alla realtà e al dramma quotidiano dell’esistenza, Keeley, insieme al compositore Matthew Bourne, aveva dato alle stampe nel 2020 il suo album di esordio intitolato Debris, convincendo critica e pubblico grazie ad una voce profonda che ricorda echi di Nico e Scott Walker e agli arrangiamenti minimali ma di grande profondità. la magia si è ripetuta nel 2022 con il suo secondo disco, intitolato Limbs, così uguale ma così diverso per poi toccare il climax della sua arte e profondità musicale con il nuovo The Hollow che è stato pubblicato dalla 130701, sottoetichetta della Fat Cat. Il titolo del disco deriva dalla scoperta, durante una passeggiata, di un pozzo minerario abbandonato da tempo. Al tempo stesso allettante e pericoloso, incassato nel fianco di una collina, “come se mi fosse apparsa una stanza e un corridoio sempre più buio scavato nel terreno. Un luogo da cui essere inghiottiti, ma anche da cui emergere”. È questa dinamica che si riflette nel clima, nel linguaggio e nelle tematiche di The Hollow. Il passato che si annida e tormenta il presente in cui viviamo. Un disco seducente e dolente, le atmosfere cupe sottolineate dalla voce profonda della Keeley e dai pochi ospiti selezionati, tra cui spicca Colin Stetson. Arrangiamenti apparentemente fragili e una voce che scandaglia l’animo umano, una sinergia che affascina e avvolge . The Hollow è senza dubbio uno degli album più interessanti usciti nel 2022 e si posiziona al #9 della mia classifica.
Ascolta: Horse
#10
CINDY LEE Diamond Jubilee (W.25th)
La TOP 10 si chiude con un disco che è stato una sorta di caso al momento della pubblicazione. Andiamo per un attimo a ritroso nel tempo per trovare una formazione canadese chiamata Women capace di pubblicare due ottimi album di sperimentazione noise prima di sciogliersi nel 2010. Il cantante-chitarrista di quella band si chiamava Patrick Flegel, che di lì a poco si reinventerà come drag performer con il nome di Cindy Lee. Dopo alcuni album tanto interessanti quanto “sommersi” che dovevano qualcosa all’ispirazione noise della sua vecchia band, a maggio 2024 ecco uscire Diamond Jubilee, ben 32 tracce per oltre due ore di musica. Il disco è “uscito” per modo di dire visto che le modalità sono state quantomeno curiose. Pubblicato all’inizio solo su YouTube (con una qualità di suono abbastanza scarsa, è approdato successivamente su Bandcamp per poi arrivare su Spotify e al formato fisico (3 LP o 2 CD) solo nel 2025. Assunto subito a fenomeno di culto per la sua particolarità di pubblicazione, in realtà l’album è davvero tanto eccentrico quanto interessante. Una sorta di compendio della storia del pop lo-fi dagli anni ’50 ad oggi, dal beat alla psichedelia, dalla disco funk patinata alla wave anni ’80. Un viaggio sonoro lungo ma che difficilmente stanca, due ore di musica intriganti e senza tempo che magari non meriterà il 10 attribuito da Pitchfork ma che incanta per lo scintillio degli arrangiamenti e la qualità della scrittura. Un disco in cui Patrick/Cindy suona ogni strumento portandoci in un mondo quasi distopico.
Ascolta: Diamond Jubilee
#11
ERIKA ANGELL The Obsession With Her Voice (Constellation)
Andiamo adesso in Canada per andare in casa Constellation, etichetta che, come abbiamo visto, ha pubblicato album meravigliosi nel corso del 2024 tanto da avere tre artisti nella mia TOP 15. Al numero 11 della classifica troviamo Erika Angell, cantante e compositrice svedese, che ha trascorso gli ultimi due decenni nelle scene musicali d’avanguardia di Stoccolma dal 2004 e di Montréal dal 2012. Tra i suoi progetti principali figurano il gruppo art-rock Thus Owls e il trio Beatings Are In The Body. Angell ha pubblicato ad inizio marzo 2024 The Obsession With Her Voice, il suo album di debutto da solista, un lavoro elettroacustico di esplorazione vocale senza freni e composizione avant-elettronica espressionista dove la sua voce e le sue tastiere vengono accompagnate da Mili Hong alla batteria, Andrea Stewart e Audréanne Filion al violoncello e Scott Chancey e Thierry Lavoie-Ladouceur alla viola. Un art-rock visionario che si regge su una solo apparentemente leggera struttura di archi e soprattutto sulla splendida voce dell’artista svedese di base a Montréal, capace di veleggiare da Laurie Anderson a Jenny Hval. Una narrazione potente e ricercata che può essere solenne e spettrale, capace di inserirsi perfettamente nel solco di casa Constellation. Un esordio non solo già maturo. ma anche di grande originalità. Se il buongiorno si vede dal mattino…
Ascolta: Up My Sleeve
#12
KIM GORDON The Collective (Matador)
Alla posizione numero 12 troviamo il secondo album solista di un’artista che ha scandito lo scorrere del tempo di noi amanti del rock da tantissimi anni. Kim Gordon, 72 anni a fine aprile, è stata un componente fondamentale dei Sonic Youth, gruppo che ha profondamente influenzato varie generazioni di rock americano e non solo. Pur partendo dall’avanguardia newyorchese, i SY non hanno davvero mai ripudiato il formato della canzone rock, sperimentando, usando gli strumenti in modo totale (soprattutto grazie ad un grande uso di effettistica e accordature inusuali a rendere unico il suono della chitarra), e diventando di fatto una vera e propria istituzione della scena alternativa americana e mondiale. 70 anni e non sentirli, per la voglia di esplorare paesaggi sonori più oscuri e dissonanti, riflettendo il suo interesse crescente per la musica sperimentale, per l’avant-elettronica, per i ritmi hip-hop e trap, per il noise industriale, grazie all’apporto di Justin Raisen (Sky Ferreira, Drake) che già aveva collaborato con lei 5 anni fa per il riuscito No Home Record. Il nuovo The Collective se vogliamo flirta con certe suggestioni in maniera ancora più radicale, quasi “normale” per una persona che pensa a se stessa come un’artista a 360 gradi più che come “semplice” musicista. Un album che, non appena uscito, ha scatenato subito una discussione tra chi lo considera una sorta di capolavoro, e chi non è convinto affatto di questo suono così ostico. E dire che la Gordon (e i SY) sono stati spesso e volentieri spiazzanti, nell’accezione positiva del termine. Il disco è potente, perfettamente calato nell’oggi musicale, un disco avventuroso ed intrigante. E voi da che parte state?
Ascolta: Psychedelic Orgasm
#13
LANKUM Live In Dublin (Rough Trade)
Lo scorso anno ho voluto premiare con la prima posizione della mia classifica un gruppo che sta rivitalizzando un genere storico come il folk cambiando in corsa le regole del gioco. Il 2023 ha visto il ritorno dei dublinesi Lankum con il loro quarto album intitolato False Lankum. Partendo da canzoni folk tradizionali, i Lankum (nome preso dal protagonista della scura folk ballad intitolata proprio “False Lankum” scritta da John Reilly) hanno impresso il loro marchio personale facendo leva su pesanti droni e distorsioni che conferiscono nuova intensità e bellezza a ogni brano. Con questo album il quartetto aveva consolidato il suo distacco dal genere folk classico, creando una musica audace e contemporanea che nasce, come detto, da elementi tradizionali ma che suona decisamente nuova. Nelle 12 tracce dell’album il quartetto irlandese aveva utilizzato una nuova tavolozza per colorare il proprio suono in modo sempre più sperimentale, grazie anche all’ausilio del produttore di lunga data John ‘Spud’ Murphy. Solo dopo la registrazione il gruppo si era reso conto che quasi tutte le canzoni dell’album, raccolte o scritte, avevano una sorta di riferimento al mare. A confermare il loro status di nuove superstar del folk, a fine giugno 2024 il quartetto ha pubblicato Live in Dublin, un album registrato in tre serate da tutto esaurito al Vicar Street di Dublino dove i Lankum hanno eseguito diversi brani del loro catalogo, tra cui “The Rocky Road to Dublin” che finora non era mai stato pubblicato ufficialmente. Unico neo, dei 9 brani che compongono la scaletta dell’edizione digitale, solo 6 sono finiti sul vinile che troviamo al #13.
Ascolta: The Rocky Road to Dublin
#14
KIM DEAL Nobody Loves You More (4AD)
Quasi a fine anno ecco uscire un album che è entrato subito di diritto nella classifica dei miei preferiti del 2024 arrivando alla posizione #14. Strano pensare a questo disco come ad una sorta di esordio solista di un’artista che è sulla breccia dell’onda da tantissimi anni. Ma c’è un fondo di verità, visto che Kim Deal aveva autoprodotto una serie di vinili in 5 parti e 10 canzoni da 7” nel 2013. Parte fondamentale di una band importantissima come i Pixies, fondatrice di un altro gruppo che ha avuto una certa valenza nella storia del rock alternativo quali le Breeders, a 63 anni la Deal ha trovato il modo di pubblicare finalmente Nobody Loves You More, frutto di un lavoro certosino durato anni. la capacità di scrittura di un’artista che ha scritto inni come “Gigantic” non può essere messa in discussione, e il suo talento viene fuori sia nelle tracce scritte proprio nel 2011 e pubblicate nel 2013, sia in quelle più recenti, con l’incedere emozionante della conclusiva “A Good Time Pushed” registrata dal compianto Steve Albini che ne ha sempre apprezzato la capacità di scrittura. Tanti gli ospiti ad accompagnarla, dalla sorella Kelley e altri ex Breeders come Mando Lopez, Jim Macpherson e Britt Walford (Slint), a Raymond McGinley dei Teenage Fanclub. Il risultato è un “esordio” tanto inaspettato quanto affascinante ed incantevole.
Ascolta: A Good Time Pushed
#15
BIG SPECIAL Postindustrial Hometown Blues (So Recordings)
Alla posizione #15 troviamo un duo proveniente dal Regno Unito, in particolare da Birmingham, che ha esordito nel corso del 2024 con un album che contiene ben 15 brani tra cui tutti i singoli che negli ultimi due anni hanno fatto presa su critica e pubblico. Joe Hicklin (voce e chitarra) e Callum Moloney (batteria e voce) hanno preso il nome di Big Special e hanno pubblicato il loro atteso album di esordio intitolato Postindustrial Hometown Blues. I due si sono conosciuti al college quando avevano 17 anni, dopo essersi esibiti insieme sotto varie forme, la loro chimica e l’amore per la scrittura li ha tenuti legati in modo creativo, portandoli a formare i Big Special un decennio dopo per sconfiggere la noia e la frustrazione dell’isolamento. Un duo che, come gli Sleaford Mods, vuole esprimere in modo più potente tra punk, soul e blues tutta la frustrazione dell’alienazione della classe operaia moderna e di una generazione di giovani disincantati. Nella situazione attuale del Regno Unito c’è così tanto da ribellarsi, così tanto per cui arrabbiarsi ma non è facile catturare appieno questo spirito. Come ha detto il batterista Callum Moloney: “Chiunque si senta escluso da questo sistema costruito contro di noi capirà la nostra musica”. Un debutto molto coinvolgente e ricco di emozioni, in cui inni di sfida all’orgoglio operaio come “Dig!” si contendono lo spazio con l’incalzante confessionale di blues urbano“Black Country Gothic”. Poco lo spazio dato loro dalla stampa musicale italiana, ma sono sicuramente un gruppo da tenere d’occhio con grande, grandissima attenzione.
Ascolta: Butcher’s Bin
#16
GODSPEED YOU! BLACK EMPEROR No Title as of 13 February 2024 28,340 Dead (Constellation)
Sveliamo ora la posizione #16 dove troviamo un gruppo molto amato da queste parti. Il collettivo di Montreal Godspeed You! Black Emperor, dopo qualche anno di pausa, è fortunatamente tornato ad incidere con frequenza quasi regolare. E in ogni lavoro in studio non viene mai a mancare il fascino ipnotico, epico, senza compromessi di una band che sin dall’indimenticabile esordio F#A#∞ del 1997 ha saputo trovare una formula unica composta da cavalcate eroiche che si innalzano al cielo come la bandiera che i GY!BE riescono a tenere sempre alta incuranti del vento che cambia. Il loro suono senza compromessi non cambia di una virgola, mantenendo sempre la stessa evocativa potenza. Ed è incredibile il fatto che un gruppo esclusivamente strumentale possa avere un impatto e un impegno sociale e politico così importante. E se il precedente G_d’s Pee At State’s End! aveva come (quasi) unico obiettivo il capitalismo, il nuovo album si intitola No Title as of 13 February 2024 28,340 Dead ed è un pugno nello stomaco, una ferita aperta che dovrebbe essere dolorosa per tutti, visto che il titolo si riferisce al numero segnalato di morti palestinesi a causa degli attacchi israeliani avvenuti tra il 7 ottobre 2023 e il 13 febbraio 2024 durante l’invasione israeliana di Gaza, secondo il ministero della Sanità di Gaza. Annunciando l’uscita dell’album, la band capitanata da Efrim Menuck ha proclamato: “LA PURA VERITÀ==ci siamo lasciati andare alla deriva, discutendo. Ogni giorno un nuovo crimine di guerra, ogni giorno un fiore che sboccia. Ci siamo seduti insieme e l’abbiamo scritto in una stanza, e poi ci siamo seduti in un’altra stanza a registrare. NESSUN TITOLO= quali gesti hanno senso mentre piccoli corpi muoiono? quale contesto? quale melodia spezzata? e poi un conteggio e una data per segnare un punto sulla linea, il processo negativo, il mucchio che cresce. il sole che tramonta sopra letti di cenere mentre eravamo seduti insieme a discutere. il vecchio ordine mondiale faceva a malapena finta di preoccuparsi. questo nuovo secolo sarà ancora più crudele. la guerra sta arrivando. Non arrendetevi. Scegliete una parte. Resistete. amore.” L’invito è quello di scegliere una parte dove stare e non starsene con le mani in mano, avvolti da una musica dolente ed eroica, con un invito a resistere, a reagire e ad amare. Una protesta senza bisogno di parole, ma basta la loro musica, profonda e mai banale, a lasciarci attoniti a riflettere su questa carneficina che sembra non aver fine.
Ascolta: GREY RUBBLE – GREEN SHOOTS
#17
JIM WHITE All Hits: Memories (Drag City)
Dopo un’alternanza di musica meditativa e potente, arriviamo al #17 della classifica, dove lasciamo sotto i riflettori il batterista dei Dirty Three: Jim White. Dopo le collaborazioni recenti con George Xylouris a nome Xylouris White e con la chitarrista Marisa Anderson, il batterista australiano, insieme al fido Guy Picciotto, si è chiuso negli studi di registrazione per mettere su nastro il suo primo album solista. Il disco, a scanso di equivoci, è tanto atipico quanto bello ed ispirato. All Hits: Memories è stato pubblicato il 29 marzo 2024, ed è un disco praticamente di sola batteria, a parte alcune macchie sonore messe a disposizione dalla lira di George Xylouris e dalle tastiere di Ben Boye. Ora, dimenticate i muscolari solo di batteria dei vari protagonisti del vagabondare tra tom, piatti e rullante. Jim White, lo sapete se apprezzate i Dirty Three e le sue collaborazioni con Bill Callahan o Cat Power, è un batterista atipico, usa bacchette, spazzole e mallets come un pittore, evocando ricordi, tracciando storie sui tamburi, costruendo paesaggi tra tribalismo e jazz che sembrano quasi casuali ma casuali non sono mai. La bellezza dell’essenziale, un album che dura nemmeno 25 minuti e che, come dice Bill Callahan nel suo classico stile “libera il tempo, lo lascia giocare, lo lascia pascolare, lo lascia rammentare. Questo è un disco di pensieri, ricordi, interventi chirurgici. Un’operazione chirurgica abile di cui potresti non renderti nemmeno conto che sta accadendo mentre sta accadendo, ma che ti rimette in piedi quando è finita”. Non ci credete? Ascoltate cliccando qui sotto uno dei brani migliori del disco come “Names Make The Name”.
Ascolta: Names Make The Name
#18
PISSED JEANS Half Divorced (Sub Pop)
Era molto atteso il ritorno delle eterne promesse del noise/hardcore Pissed Jeans. Sono passati ben sette anni dal loro quinto disco intitolato Why Love Now che li aveva consacrati ai livelli più alti. L’album, co-prodotto dalla regina della no wave Lydia Lunch, era una continua e mastodontica esplosione: dodici tracce che mostravano una rabbia controllata a stento e convogliata nei giusti binari dalla voce di un sempre più convincente Matt Korvette. Tanti i momenti immediati e coinvolgenti di un disco (e di un gruppo) che aveva stupito una volta di più per potenza muscolare, autoironia e scrittura raffinata. Una rabbia e un’urgenza che trova sfogo in una scoppiettante scrittura condita da testi cinici ed irriverenti, che va dritta al punto senza troppi fronzoli. Da Allentown, Pennsylvania, Matt Korvette insieme ai suoi compagni di avventura Bradley Fry (chitarra), Randy Huth (basso) e Sean McGuinness (batteria) si sono rimessi in moto trovando i loro meccanismi ben oliati e pubblicando Half Divorced, un album tanto breve (12 tracce per 30 minuti in totale), quanto devastante nel suo incedere punk hardcore che comprende anche la cover di “Monsters” dei Pink Lincolns. Il feroce cinismo di Korvette e compagni non fa sconti a nessuno esprimendo “la tensione tra l’ottimismo giovanile e la deprimente realtà dell’età adulta”. Un disco da ascoltare a volume alto e che non potevo non inserire nella mia classifica di fine anno, dove lo troviamo al #18.
Ascolta: Moving On
#19
WHITNEY JOHNSON Hav (Drag City)
Da più di un decennio Whitney Johnson attraversa la scena musicale underground di Chicago. Nata come musicista classica, è stata attratta presto dal punk e dalla psichedelia, andando a collaborare con moltissime realtà sia rock e psichedeliche (Ryley Walker, Bitchin Bajas, Oozing Wound, Circuit Des Yeux) che sperimentali (Verma, Simulation, Damiana). Ha lavorato con minimalisti come La Monte Young e Marian Zazeela e parallelamente alla musica ha intrapreso un cammino di impegno universitario e sociale che l’ha portata a gestire programmi di alfabetizzazione, lavorare con rifugiati e a prendere un master in politica culturale e un dottorato in sociologia. Due anni fa ero rimasto colpito dal suo album a nome Matchess intitolato Sonescent, un disco onirico e bellissimo, in cui sogno e ricordo, mente e corpo si univano in un flusso ininterrotto di enorme bellezza rigeneratrice. Nel 2024 la Johnson è tornata a far sentire la propria voce con due nuovi lavori usciti in contemporanea e ispirati da un viaggio del 2021 quando Whitney faceva ricerche sul Culto di Ermafrodito e visitava tutti i siti disponibili dell’attività del culto a Cipro e in Grecia. Durante gli spostamenti ha letto per la prima volta Frankenstein di Shelley, ha raccolto materiale dai siti tramite filmati VHS, foto da 35 mm e vari field recordings. Nell’autunno del 2023, grazie a una sovvenzione del DCASE di Chicago, Whitney è tornata in Svezia per terminare entrambi i dischi: Hav (che troviamo al #19) pubblicato a suo nome e Stena (uscito solo su cassetta) a nome Matchess. “Penso al suono/musica come a qualcosa che accade nel mio corpo piuttosto che a qualcosa che può essere spiegato a parole”, e ancora una volta è riuscita a creare un mondo coinvolgente e meditativo.
Ascolta: Vari
#20
MOIN You Never End (AD 93)
Due anni dopo l’uscita dell’ apprezzato secondo album Paste, ecco tornare in grandissima forma e posizionarsi al #20 i Moin. La band formata da Joe Andrews e Tom Halstead dei Raime ha trovato la perfetta quadratura del cerchio con l’ingresso della straordinaria Valentina Magaletti (Tomaga, Vanishing Twin, Holy Tongue) dietro i tamburi. You Never End attinge influenze, come il suo predecessore, da parecchia musica alternativa per chitarra del passato (soprattutto degli anni 90) nelle sue molteplici forme, dal post-rock, al post-punk ad un hardcore evoluto, utilizzando manipolazioni elettroniche e tecniche di campionamento per ridefinirne il contesto, senza fissarsi su un unico stile ma muovendosi attraverso di esso alla ricerca di nuove connessioni. Esplorando queste relazioni, il trio riesce ad offrire una sorta di collage di conosciuto e sconosciuto, punteggiato da testi che stavolta vengono interpretati da interessanti collaborazioni vocali. Tensioni portate al limite dell’implosione, una continua ricerca sonora che porta alla ricerca di un linguaggio nuovo pur con le basi ben salde su un universo stilistico che è quello, ben identificabile, del post-rock anni ’90, più Louisville che Chicago. Una riproposizione mai pedissequa ma in continua mutazione che ha portato il gruppo ad esplorare stavolta un lato più accessibile e, se vogliamo, quasi sentimentale.
Ascolta: Lift You (feat. Sophia Al Maria)
#21
THE BUG Machines I-V (Relapse Records)
Per scoprire il #21 della mia Playlist 2024 cambiamo completamente direttrici sonore andando a parlare di uno dei più devastanti produttori e musicisti di elettronica, attivo da moltissimi anni con progetti sempre estremamente riusciti. Il britannico Kevin Martin ha iniziato a interessarsi alla musica da adolescente, attratto dalla visione sonora dei Joy Division, dei Sex Pistols, di Captain Beefheart, dei Birthday Party e dei Throbbing Gristle. Ha descritto il suo interesse iniziale per la musica come derivante dalla sua difficile situazione familiare durante l’infanzia, aggiungendo: “la musica post-punk faceva a pezzi i libri delle regole e metteva in discussione tutto, in particolare la struttura in termini di musica, arte, politica”. Attratto dall’estetica DIY ha iniziato a lavorare con un registratore a quattro tracce e un pedale per gli effetti. Tantissimi i suoi progetti, da quelli con Justin Broadrick chitarrista dei Godflesh (GOD, Ice) a quello ascoltato nello scorso podcast chiamato King Midas Sound insieme al poeta-songwriter Roger Robinson fino a quello probabilmente più conosciuto, ovverosia The Bug. E proprio con questa ragione sociale Martin ha pubblicato un doppio album devastante, profondo come Machines I-V, dove per la prima volta rinuncia a collaborazioni e voci per fare tutto da solo, scavando nelle profondità del dub e rielaborando i detriti per portarli alla luce più sporchi e profondi che mai. Il disco, non a caso, è stato pubblicato da un’etichetta dedita al metal come la Relapse e se avete ancora dubbi, toglieteveli ascoltando l’apocalittica “Battered (Curse Of Addiction)”.
Ascolta: Battered (Curse Of Addiction)
#22
BILL RYDER-JONES Iechyd Da (Domino)
“Credo che nel corso degli anni la mia musica abbia perso un po’ di speranza. Era importante per me fare un disco che avesse più consapevolezza e prospettiva. Anche per i miei standard, gli ultimi anni sono stati duri, ma ho scelto di fare da colonna sonora con una musica più positiva. Amo questo album. Non ero così orgoglioso di un disco da tanti anni”. Così l’ex The Coral Bill Ryder-Jones ha parlato di Iechyd Da (“buona salute” in gallese) il suo nuovo album solista arrivato dopo cinque anni di silenzio. In realtà in questi anni il musicista inglese non è stato certamente con le mani in mano, avendo prodotto nei suoi Yawn Studios di West Kirby, nel Merseyside artisti del calibro di Michael Head, Saint Saviour e Brooke Bentham. Il nuovo album, che troviamo al #22, è probabilmente il più ambizioso della carriera di Ryder-Jones, rifinito con la consapevolezza del produttore ormai navigato e ricco di contenuti diversi, gioiosi e intimisti, raffinati e ricchi di romanticismo. Un disco coccolato e rifinito negli ultimi tre anni, dove nulla è lasciato al caso. La copertina dell’album raffigura il dipinto di una casa rosa pastello illuminata dalla luna nel villaggio di pescatori scozzese di Crail. “Quel quadro era troppo bello, mi ricordava la sicurezza di una casa. Voglio che questo disco possa essere considerato come una casa accogliente, dove la gente possa venire e sentirsi al sicuro, come lo sono per me i miei dischi preferiti”. Ascoltando l’album direi che l’obiettivo del musicista inglese è stato sicuramente centrato.
Ascolta: This Can’t Go On
#23
TAPIR! The Pilgrim, Their God and the King of My Decrepit Mountain (Heavenly Recordings)
Continuiamo il podcast trovando al #23 della mia personalissima classifica un collettivo inglese che ha esordito proprio nel 2024 portando il proprio esordio sugli scaffali dei negozi di dischi fisici e virtuali. “From atop a green hill, The Pilgrim did hear a call from the distance. Their people are near. Towards the tall mound The Pilgrim must set, carrying only this sack, into the Nether…”. Così inizia il primo atto dell’album di debutto dei Tapir!, The Pilgrim, Their God and the King of My Decrepit Mountain, un disco multiforme che deve tanto all’arte popolare e al folklore quanto alla sperimentazione alt-folk. I sei elementi provengono dalla comunità artistica della George Tavern, nel Sud di Londra: Ike Gray (voce, chitarra), Will McCrossan (tastiere, batteria), Tom Rogers-Coltman (chitarra, sassofono), Ronnie Longfellow (basso), Emily Hubbard (cornetta, synth) e Wilf Cartwright (batteria, violoncello), aiutati alla produzione da Yuri Shibuichi, batterista di un altro gruppo londinese molto interesssante, gli Honeyglaze. Si descrivono come un miscuglio di diversi ambiti: allo stesso tempo musicale, teatrale, mitologico, artistico, collaborativo, narrativo e, soprattutto, qualcosa da assaporare e condividere. Il disco racconta la storia di un viaggiatore solitario, un’ambigua creatura rossa nota come The Pilgrim, in viaggio attraverso un paesaggio mitico di foreste inquietanti, mari in tempesta e montagne infernali popolate da bestie, uccelli feriti e spettri idealizzati. Il quadro potrebbe risultare stucchevole nel suo essere troppo naif, ma i sei riescono a coinvolgere l’ascoltatore facendolo fuggire dagli orpelli del mondo materiale moderno, mostrando una sorta di paese delle meraviglie pre-industriale e pre-internet dove la creatività e la comunità regnano sovrane. Il disco risulta emozionante con momenti di grande bellezza.
Ascolta: The Nether (Face to Face)
#24
CAROLINE SHAW, SŌ PERCUSSION Silently Invisibly (Nonesuch)
Al #24 troviamo un album che sono riuscito ad ascoltare quasi in chiusura di classifica, costringendomi a modificarla. Caroline Shaw è una compositrice classica e violinista, capace di diventare la più giovane vincitrice del Premio Pulitzer per la musica nel 2013. Nel 2020 ha iniziato una proficua collaborazione con il quartetto Sō Percussion, composto da Jason Treuting, Adam Sliwinski, Josh Quillen ed Eric Cha-Beach, capace di ridefinire il suono da camera in questo 21° secolo con il loro straordinario talento ed interplay. Il disco che aveva dato il via alla loro collaborazione, Narrow Sea, pubblicato anche insieme a Dawn Upshaw e Gilbert Kalish era stato addirittura capace di vincere un Grammy nel 2020. Un anno più tardi la Shaw ed il quartetto hanno fatto uscire il loro primo album Let The Soil Play Its Simple Part ed il tour seguente, interrotto dalla pandemia, gli ha permesso di perfezionare il loro modo di lavorare insieme mescolando il songwriting classico della Shaw con le nuove modalità espressive del quartetto. Rectangles and Circumstance, uscito a giugno 2024, è un album splendido tra un cantautorato rigoroso ma mai freddo, riscaldato dalla splendida voce della Shaw, e gli arabeschi sonori creati dal quartetto. I testi, ispirati un gruppo di poesie del diciannovesimo secolo hanno modellato la loro modalità espressiva.
Ascolta: Sing On
#25
THE J. & F. BAND ★ Star Motel ★: An American Music Experience (Long Song Records)
Ad occupare la posizione #25 troviamo un gruppo formato da musicisti statunitensi ed italiani capace di mettere insieme le anime della musica a stelle e strisce in maniera fantastica ed irrefrenabile. E’ tornata la straordinaria The J. & F. Band capitanata da uno dei fondatori della Allman Brothers Band, il batterista Jaimoe Johanson, insieme al bassista Joe Fonda. Il nuovo viaggio musicale intrapreso dalla band con ★ Star Motel ★: An American Music Experience spazia dal blues di Chicago del Nord-Est, con la Route 66, al funk del profondo Sud, andando verso Ovest fino a L.A. passando per Nogales, in Arizona, per incontrare il fantasma di Mingus e le sue visioni, per tornare attraverso le Grandi Pianure dove il Rez è lo stile di vita di molti. Per finire dove tutto è iniziato, nel Sud-Est del paese e delle vibrazioni funky. Ad accompagnare i due titolari della sigla ci sono Tiziano Tononi alla batteria, Paolo Durante al piano, hammond, synth e mellotron, David Grissom e Craig Green alle chitarre, Jon Irabagon al sax tenore, Emanuele Parrini al violino e Bobby Lee Rodgers a voce e chitarra. Una super band capace di divertirsi con un doppio album (primo di canzoni, il secondo di jam sessions strumentali) sempre perfettamente calibrato e messo a fuoco, grazie anche alla bravura del produttore Fabrizio Perissinotto e alla alla passione di un’etichetta straordinaria come la milanese Long Song Records. Un album che non dovrebbe mancare nella collezione di un’amante della musica americana.
Ascolta: Star Motel
#26
ARAB STRAP I’m Totally Fine With It 👍 Don’t Give A Fuck Anymore 👍 (Rock Action)
Era il 1998 quando la pubblicazione di Philophobia, secondo album degli Arab Strap, gettò nel caos la piccola comunità scozzese di Falkirk. Alcuni piccoli e grandi segreti di alcuni dei 35.000 abitanti della città posizionata nella Forth Valley furono messi clamorosamente in piazza in maniera nuda, scarna, lenta e sofferta dalla voce narrante di Aidan Moffat e dagli arpeggi di Malcolm Middleton. L’esordio del duo scozzese era formato da canzoni malinconiche che parlavano di debolezze quotidiane, di sbornie, scopate e tradimenti. Canzoni che riescono ad arrivare dritte allo stomaco anche dopo tutti questi anni, visto che il disco è del 1998 e lo scioglimento del sodalizio scozzese risale al 2006. Era con la loro tipica ironia che annunciavano il loro ritiro dalle scene come duo con una compilation intitolata Ten Years Of Tears, con i due immortalati in copertina con faccia imbronciata sui lati opposti di un tavolo in una sala dove si era celebrata la loro festa di addio (con un eloquente striscione “Enjoy Your Retirement”). Nonostante i dischi solisti dei due ci abbiano regalato più di qualche gioia (soprattutto i progetti solisti di Moffat a nome Nyx Nótt) ci mancava quella miscela di cinismo e sentimento, di depressione ed ironia che nella loro fortunata carriera insieme hanno saputo quasi sempre regalarci. La notizia del ritorno del duo nel 2016 ci aveva scaldato il cuore, ma, come sempre avviene sulle reunion dei gruppi che abbiamo amato molto, poi è subentrata la paura. Il timore della delusione, di non ritrovare gli stessi Moffat-Middleton. Ma nel 2021 già dalle prime note diAs Days Get Dark si era capito che quella paura era infondata. Nel corso del 2024 i due sono tornati con un nuovo lavoro intitolato I’m Totally Fine With It 👍 Don’t Give A Fuck Anymore 👍 che troviamo al #26 dove ancora una volta dietro ad arrangiamenti perfetti e raffinati troviamo quella miscela di cinismo e sentimento, di depressione ed ironia che nella loro fortunata carriera insieme hanno saputo quasi sempre regalarci.
Ascolta: Strawberry Moon
#27
ENGLISH TEACHER This Could Be Texas (Island Records)
Alla posizione numero 27 troviamo un gruppo che viene da Leeds, città che ha dato i natali a moltissime bands fondamentali del passato come, ad esempio, Gang Of Four. La cantante Lily Fontaine, il chitarrista Lewis Whiting, il batterista Douglas Frost, e il bassista Nicholas Eden si sono conosciuti al conservatorio della città britannica dando vita ad un progetto dream-pop chiamato Frank che avrà vita breve. La rinascita affidata alla ragione sociale di English Teacher invece ha avuto molto più successo, visto il loro talento compositivo e l’appartenenza (molto più di facciata che reale) ad una scena post-punk britannica che li ha visti essere immersi in un calderone da cui, fortunatamente, riescono ad emergere. Eh sì, perché dalla loro parte c’è una sana sfacciataggine sotto forma di ritornelli che entrano facilmente in testa per uscirne a fatica uniti ad una certa complessità strutturale. Dopo che due anni fa l’EP Polyawkward aveva avuto un notevole riscontro, era molta l’attesa per l’esordio sulla lunga distanza, con un’affermata producer come Marta Salogni dietro al mixer. E This Could Be Texas non ha certo deluso le aspettative. Sono molti gli spunti dietro alle 13 tracce di cui è composto il disco, un po’ di art-pop, sprazzi di prog che si fermano in tempo prima di diventare stucchevoli, momenti più oscuri e aperture melodiche. Tutto miracolosamente si regge in piedi portando il loro esordio direttamente nella Top 30 della mia personalissima Playlist 2024.
Ascolta: The World’s Biggest Paving Slab
#28
PETER PERRETT The Cleansing (Domino)
Fa un po’ ridere pensare che gli Only Ones siano riusciti ad ottenere un clamoroso successo solo nel 2006 quando la loro canzone più famosa, “Another Girl, Another Planet” è stata utilizzata per una campagna pubblicitaria della Vodafone. In realtà, il successo “postumo” è stato così forte da convincere Peter Perrett (che aveva formato la band a Londra nell’agosto del 1976) a riunire il suo vecchio gruppo, sciolto ufficialmente nel 1982) per un tour britannico di grande successo. Il songwriting di Perrett è sempre stato notevole, ma allo stesso tempo l’artista non ha mai avuto una vita semplice e lineare, segnata da una serie di vicissitudini personali, tra cui dipendenze, difficoltà familiari e un lungo periodo di assenza dalle scene. La sua personale rinascita, iniziata nel 2017 con il suo primo album solista How The West Was Won e confermata due anni più tardi con Humanworld, si è sublimata nel 2024 con il nuovo The Cleansing, una purificazione di nome e di fatto che ci ha consegnato il settantaduenne londinese in una nuova e splendida forma. La carica e la spavalderia di chi è riuscito a fuggire dai tentacoli della dipendenza, anche dopo aver scoperto quasi casualmente di avere una grave osteoporosi, il tutto abbinato alla sua capacità consueta di scrivere testi mai banali e di grandi canzoni come la “Disinfectant” che trovate qui sotto. Non ho mai avuto dubbi sul fatto che The Cleansing potesse apparire in molte classifiche di fine anno e così è stato, compresa la mia, dove occupa meritatamente la posizione #28.
Ascolta: Disinfectant
#29
BETH GIBBONS Lives Outgrown (Domino)
Arriviamo al numero 29 per trovare una cantante tanto conosciuta quanto sempre lontana dalla luce dei riflettori. Interviste? Si contano sulle dita di una mano. Foto? Quasi sempre fuori fuoco. Ma la sua voce…beh, quella è indimenticabile per aver marchiato a fuoco la scena di Bristol ad inizio anni ’90 con i Portishead. Carriera iniziata relativamente tardi e centellinata con cura quella di Beth Gibbons, tra alcune memorabili collaborazioni ed un disco pubblicato ben 22 anni fa (incredibile pensare a quanto passa in fretta il tempo) in coabitazione con Paul Webb aka Rustin Man intitolato Out Of Season. Sei anni dopo, il ritorno a sorpresa dei Portishead, ma dopo, di nuovo, il silenzio, interrotto solo da alcune colonne sonore, la collaborazione con Kendrick Lamar e un contratto, nel 2013, con la Domino. Undici anni dopo, ecco uscire il suo vero debutto solista intitolato Lives Outgrown, un album atteso non solo da chi spera ancora in una riunione con Geoff Barrow e Adrian Utley, ma anche da tutti quelli che con la sua voce ha fatto volare in posti lontani. Prodotto dalla stessa Gibbons insieme a James Ford e ad un altro ex Talk Talk come Lee Harris, il disco è naturalmente lontano dai suoni della sua vecchia sigla, andando ad approfondire dinamiche di folk scuro sicuramente ispirato dalla campagna di Devon dove vive ormai da tempo. Un album fuori dal tempo.
Ascolta: Floating On A Moment
#30
SHELLAC To All Trains (Touch And Go)
Purtroppo il 2024 in musica è stato segnato dalla scomparsa improvvisa a soli 61 anni di Steve Albini. Una botta che ha lasciato un vuoto gigantesco per tutti gli amanti del rock alternativo. Albini è stato personaggio fondamentale sia come musicista che dietro alla consolle in veste di produttore, anche se non amava definirsi così, visto che riteneva che l’uomo dietro al mixer non dovesse influenzare il lavoro creativo degli artisti. Albini, di chiara origine italiana, aveva iniziato nel 1981 a creare il suo suono tanto claustrofobico quanto dirompente con i Big Black, per continuare qualche anno più tardi con i Rapeman. Dopo lo scioglimento di questi ultimi, Albini nel 1989 decise di protestare platealmente contro l’industria discografica delle major, colpevole, secondo lui, di ingannare e sfruttare finanziariamente i propri artisti. Pur bloccandosi come musicista per qualche anno, non aveva mai smesso di regalare il suo tocco abrasivo a moltissimi artisti che lo avevano ingaggiato come sound engineer. È quasi impossibile quantificare il suo impatto sulla musica underground come musicista e come produttore: un uomo che ha messo il suo marchio inconfondibile su una lista infinita di dischi che amiamo, grande esempio di indipendenza e una delle menti più lucide in circolazione. Quando però ha deciso di tornare nelle vesti di musicista lo ha fatto in grande stile, con un nuovo gruppo, gli Shellac, ed un album come At Action Park. Paradossalmente, il gruppo aveva annunciato l’uscita di un nuovo album dopo dieci anni di silenzio. Il sesto disco del gruppo di Chicago è stato pubblicato pochi giorni dopo la scomparsa di Albini. To All Trains mostra la solita solida impalcatura che ce li ha fatti amare, e seppure non sia un album sorprendente ne certamente il migliore della loro carriera, mi sembrava giusto inserirlo in classifica alla 30 posizione.
Ascolta: To All Trains (Full Album)
#31 - #50
31. DEAD BANDIT: Memory Thirteen (Quindi Records)
32. MOUNT KIMBIE: The Sunset Violent (Warp)
33. BUZZ’ AYAZ: Buzz’ Ayaz (Glitterbeat)
34. VITTORIO NISTRI – FILIPPO PANICHI: Vittorio Nistri – Filippo Panichi (Snowdonia)
35. ELENA SETIÉN: Moonlit Reveries (Thrill Jockey)
36. THE JESUS LIZARD: Rack (Ipecac)
37. JESSICA PRATT: Here In The Pitch (City Slang)
38. GILLIAN WELCH & DAVID RAWLINGS: Woodland (Acony)
39. BARRY ADAMSON: Cut To Black (Barry Adamson Inc.)
40. ANI DiFRANCO: Unprecedented Shit (Righteous Babe)
41. F.D. OBERLAND, G. DARGENT, T. ELIEH, W. HALAL: SIHR (Sub Rosa)
42. WE ARE WINTER’S BLUE AND RADIANT CHILDREN: No More Apocalypse Father (Constellation)
43. E: Living Waters (Silver Rocket Records)
44. MICHAEL HEAD & The Red Elastic Band: Loophole (Modern Sky)
45. THE SEX ORGANS: We’re Fucked (Voodoo Rhythm)
46. BY THE WATERHOLE with Stephan Meidell: Three (Playdate Records)
47. THE NECKS: Bleed (Northern Sky)
48. MARINA ALLEN: Eight Pointed Star (Fire Records)
49. THE MYSTERY LIGHTS: Purgatory (Wick Records)
50. SUMAC: The Healer (Thrill Jockey)
OUTSIDERS:
- SPRINTS: Letter To Self (City Slang)
- X: Smoke & Fiction (Fat Possum)
- KABOOM KARAVAN: Fiasko! (Miasmah)
- HYPER GAL: After Image (Skin Graft)
- BILL CALLAHAN: Resuscitate! (Drag City)
- ALESSANDRO STEFANA: Alessandro Stefana (Ipecac)
- PARTY DOZEN: Crime In Australia (Temporary Residence)
- ARCO: Orama (Ammiratore Omonimo)
- IL SOGNO DEL MARINAIO: Terzo (Improved Sequence)
- BARK!: Sweet Factory Sessions Volume 1 (Bark! Bandcamp)
- COLIN STETSON: The Love It Took To Leave You (Envision / Invada)
- MOON RELAY: Iddy Humpty (Sheep Chase Records)
- BUÑUEL: Mansuetude (Skin Graft)
- THE THE: Ensoulment (Cineola)
- THURSTON MOORE: Flow Critical Lucidity (The Daydream Library)
- KING HANNAH: Big Swimmer (City Slang)
- BEAUTIFY JUNKYARDS: Nova (Ghost Box)
- THE DECEMBERISTS: As It Ever Was, So It Will Be Again (Yabb/Thirty Tigers)
- ELEPHANT9 with TERJE RYPDAL: Catching Fire (Rune Grammofon)
- AMBARCHI / BERTHLING / WERLIIN: Ghosted II (Drag City)
- FATHER JOHN MISTY: Mahashmashana (Bella Union)
- ADRIANNE LENKER: Bright Future (4AD)
- LAURA MARLING: Patterns In Repeat (Partisan Records)
- MOOON: III (Soundflat)
- JLIN: Akoma (Planet Mu)
- XIU XIU: 13″ Frank Beltrame Italian Stiletto with Bison Horn Grips (Polyvinyl)
- YARD ACT: Where’s My Utopia (Island Records)
- PORRIDGE RADIO: Clouds In The Sky They Will Always Be There For Me (Secretly Canadian)
- JOHN CALE: POPtical Illusion (Domino)
- DENSELAND: Code & Melody (Arbitrary)
- ORCHESTRE TOUT PUISSANT MARCEL DUCHAMP: Weathervanes (Southeastern)
- MOOR MOTHER: The Great Bailout (Anti-)
- DARIUS JONES: Legend Of e’Boi (The Hypervigilant Eye) (Aum Fidelity)
- THE BEVIS FROND: Focus On Nature (Fire Records)
- HOUSE OF GOLD: House Of Gold (Sofa Music)
- TUCKER ZIMMERMAN: Dance Of Love (4AD)
- HOLY TONGUE meets SHACKLETON: The Tumbling Psychic Joy of Now (AD 93)
- JACK WHITE: No Name (Third Man)
- FAT WHITE FAMILY: Forgiveness Is Yours (Domino)
- TINDERSTICKS: Soft Tissue (CIty Slang/Lucky Dog)
- CHARLES LLOYD: The Sky Will Still Be There Tomorrow (Blue Note)
- DIRTY THREE: Love Changes Everything (Bella Union)
- CHRISTOPHER CHAPLIN: Door 1 Door 2 (Fabrique Records)
- BEAK: >>>> (Invada)
- PAPA M: Ballads Of Harry Houdini (Drag City)
- IDLES: Tangk (Partisan Records)
- BEINGS: There Is A Garden (No Quarter)
- UGLY: Twice Around The Sun (The state51 Conspiracy)
- THE LEMON TWIGS: A Dream Is All We Know (NoiseWave)
- FONTAINES D.C.: Romance (XL Recordings)
RISTAMPE & ANTOLOGIE:
- GASTR DEL SOL: We Have Dozens Of Titles (3 LP-2 CD) (Drag City)
- ROYAL TRUX: Twin Infinitives (2 LP) (Fire Records)
- NEIL YOUNG: Neil Young Archives Vol. III (1976-1987) (17 CD) (Reprise Records)
- APHEX TWIN: Selected Ambient Works II (4 LP – 3 CD) (Warp)
- BROADCAST: Spell Blanket Collected Demos 2006-2009 (Warp)
- THE WATERBOYS: 1985. How The Waterboys Made This Is The Sea and Saw The Whole Of The Moon (6 CD+BOX) (Chrysalis)
- ALICE COLTRANE: The Carnegie Hall Concert (CD – 2 LP) (Impulse!)
- JOHN CALE: Ship Of Fools. The Island Albums (3 CD) (Cherry Red)
- CAN: Live In Paris 1873 (2 LP – 2 CD) (Mute)
- THE CARNIVAL OF FOOLS: Complete Discography 1989-1993 (2 CD) (Area Pirata)
- MIKE COOPER: Under The Volcano (Hipshot Records)
- SOFT MACHINE: Hovikodden 1971 (4 LP – 4 CD) (Cuneiform)
- KEIJI HAINO: Black Blues (2 CD) (Room40)
- JACK BRUCE: Songs for a Tailor – Remastered Edition (2 CD + 2 DVD) (Cherry Red)
- NEPTUNE: Mother Of Millions (Wrong Way)
