Diciamocela tutta, siamo un po’ tutti sotto shock. Abbiamo imprecato contro il “maledetto” 2016 che ci aveva portato via alcuni degli artisti più amati come David Bowie o Prince, ma il 2017 non sembra fare sconti. Dopo Charles Bradley, Holger Czukay e Jaki Liebezeit dei Can, e dopo (poche settimane fa) la perdita di un altro musicista “generazionale” come Grant Hart, ecco arrivare un’altra notizia tremenda. Non ce l’ha fatta Tom Petty: un infarto (ironia della sorte) se l’è portato via a pochi giorni dal suo 67 compleanno. Il songwriter era stato ricoverato domenica al Santa Monica Hospital in condizioni critiche, dopo essere stato trovato privo di sensi nella sua casa di Malibu. La notizia era stata inizialmente diffusa dalla CBS prima dell’effettivo decesso, quando l’artista era ancora in fin di vita, e per alcune ore non è stato chiaro quale fosse la reale situazione. I medici hanno deciso di staccare la spina dopo aver constatato l’assenza di attività cerebrale.
Petty era nato a Gainsville, Florida, il 20 ottobre 1950. Nel 1970 formò una band chiamata Mudcrutch in cui militavano Mike Campbell e Benmont Trench, diventati poi suoi inseparabili compagni di strada nella sua band chiamata Heartbreakers, che entrò nel cuori di molti nel 1976 con l’album di esordio eponimo.
Una carriera andata avanti con successo di critica e pubblico per 40 anni, ed era proprio il Tour del quarantennale quello che Petty stava portando in giro per gli States. Uno stile sempre sincero, coerente, vero, schietto, la migliore musica americana. Petty ha sempre avuto la capacità di scrivere storie, e di scriverle bene, con il dono della bellezza che possedeva. Vorrei rubare delle parole scritte da un grande della musica italiana come Antonio Gramentieri (Sacri Cuori, Don Antonio) perché credo sia impossibile descrivere la semplice magia di artigiano di Tom Petty meglio di come ha scritto lui sulla sua pagina Facebook, perché il songwriter aveva la capacità di scrivere “romanzi di tre minuti, con le parole levigate fino a sembrare le più semplici del mondo, ma comunque romanzi totalmente compiuti nei personaggi e negli stati d’animo. E quel perenne rimbalzare tra primo quarto sesto quinto grado, e trovarci ogni volta una chiave melodica per incendiare il ritornello, e il cuore. E il fraseggio, clamoroso, ogni parola come un colpo di tamburo. E il suono della voce, sempre più dentro la gola, e lo stomaco. E quel senso antico tutto americano di ‘fare il proprio mestiere’ di entertainer, portare in giro le canzoni e suonarle bene, con la propria band, mettendo sul piatto l’eleganza e la coolness di uno che dà e si dà, ma che non potrai mai avere del tutto. Prendendo atto che le canzoni sono del pubblico quanto le tue, senza la fregola di reinventare, con un’umiltà più da artigiano che da artista. Qui se ne va un pezzo importante del DNA di quello che cerchiamo di essere, noi, che stiamo da questa parte del manico della chitarra, e di quello che nella vita abbiamo cercato di diventare. Davvero si sente il vento della sera calare su un’epoca, per qualche motivo più di altre volte. E’ una cosa molto grande, questa che è successa, che mi fa molto piangere.”
Non resta altro che mettere su per l’ennesima volta Damn The Torpedoes, Full Moon Fever, l’eponimo esordio, Wildflowers, l’ultimo Hypnotic Eye o quello che volete, fatevi avvolgere dal suono di un artista che (senza motivo) per molto tempo non è stato neppure profeta in patria e che stranamente nella nostra penisola non ha mai riscosso il successo di altri artisti simili e inferiori come capacità di scrittura. Oggi quella Gibson Flying V è piantata nel cuore di ognuno di noi. Ciao Tom.