Nonostante sia rimasta lontana dalle luci dei riflettori e dal red carpet, Kristin Hersh negli ultimi anni si è dimostrata autrice sempre ispirata ed estremamente attiva.
Nel 2013 è tornata con i suoi Throwing Muses pubblicando “Purgatory/Paradise” (primo album dopo un decennio di silenzio del gruppo che insieme a Pixies e Dinosaur Jr. ha fatto parte dell’elite della scena indie power rock di Boston), continua a sfornare EP con i 50 Foot Wave (l’ultimo “Bath White” è uscito pochi mesi fa), e ha pubblicato tre libri: un’autobiografia, un testo per bambini, e “Don’t Suck, Don’t Die: Giving Up Vic Chesnutt”, un libro che racconta la vita tormentata del compianto Vic Chesnutt, sublime songwriter e suo amico fraterno scomparso nel 2009. Proprio il “formato libro” sembra essere diventato il preferito della prolifica songwriter. Già “Crooked”, sei anni fa, iniziava il discorso in questo senso, permettendo il download dei files musicali attraverso un codice stampato sul coupon incluso nel libro. Anche il ritorno dei Throwing Muses è stato in formato libro, ma al posto del coupon trovava posto in seconda di copertina direttamente il supporto fisico.
Stavolta Kristin Hersh ha voluto fare le cose in grande, “Wyatt At The Coyote Palace” infatti si compone di un libro con copertina rigida composto di ben 64 pagine di storie scritte dalla songwriter, alternate ai testi delle canzoni che fanno parte dei due CD inclusi nella confezione. La prosa della Hersh è stata ispirata dal suo figlio autistico Wyatt e dalla sua attrazione per un appartamento abbandonato abitato dai coyote che si trovava proprio accanto allo studio di registrazione di Rhode Island. L’esplorazione da parte di Wyatt di quel luogo particolare e dei suoi curiosi abitanti durante le registrazioni della madre, ha influenzato in maniera fondamentale la composizione del nuovo lavoro, andando dietro al flusso di pensieri del figlio e componendo le 24 canzoni che compongono il doppio cd in un flusso inquieto e malinconico.
“Sono rimasta subito affascinata dal suo amore per quel luogo. Il batterista dei Throwing Muses, Dave Narcizo, che è anche il mio migliore amico dai tempi della scuola, ha convenuto che Wyatt aveva bisogno di incapsulare i ricordi della sua percezione del palazzo dei coyote e di chiudere così la sua esperienza, come se dovesse in qualche modo imprigionare il ricordo in una bottiglia. Dave pensa che lo vedremo ancora, e che l’amore di Wyatt per quel posto tornerà di nuovo non appena le immagini saranno filtrate attraverso la sua psicologia così intensa ed affascinante.”
La Hersh ha suonato da sola tutti gli strumenti, partendo dalla semplicità della classica forma cantautorale (voce e chitarra) per costruire le sue mirabolanti variazioni in bilico tra folk, psichedelia e alt country, permettendosi di tanto in tanto dei fendenti elettrici che sarebbe interessante ascoltare con il supporto della sua vecchia band come “Wonderland”, la seconda parte di “In Stitches” o “Hemingway’s Tell”. L’abilità nel cambiare registro all’interno dello stesso brano è evidente in brani come la splendida “Detox” che si inerpica su complessi e inquieti sentieri elettrici per poi mostrare un fragile arrangiamento acustico. Stesso procedimento usato per l’ottima “Diving Bell” e le sue variazioni sul tema in punta di chitarra acustica. Il percorso scelto conquista per i suoi cambi di direzione, mai troppo bruschi, che rendono deliziose alcune malinconiche ballate come “Secret Codes”, “Cooties” e “Shaky Blue Can”. Avanza ancora spazio per le scintille elettriche di “Some Dumb Runaway” e della conclusiva “Shotgun” e per l’ambiziosa alternanza acustico/elettrica di “Green Screen” e “Guadalupe”.
Visto la particolarità del progetto, è estremamente interessante seguire l’andamento dei brani sfogliando il libro e lasciandosi trasportare dalla corrente tortuosa, visionaria e mai prevedibile dei pensieri e dei testi. Una gustosa alternanza di musica e letteratura, pensieri e note, con piccole sorprese come la curiosa ricetta di “hooker gazpacho” inserita in appendice del testo di “Detox”. Un succedersi di canzoni ora malinconiche e lievi, ora complesse e inquiete che soddisfa e ci dona la certezza di aver ritrovato un’artista di livello estremamente elevato, il cui unico piccolo difetto, forse, è stato quello di essersi fatta prendere troppo la mano dall’ispirazione e dalla scrittura riempiendo ben due dischi di musica. Probabilmente se avesse trovato il modo di mettere le canzoni migliori in un solo disco ci saremmo trovati di fronte ad un piccolo capolavoro.