Una vita a dir poco difficile, quella di Charles Bradley, sempre sull’orlo dell’abisso, tra abbandoni, povertà, disperazione. Una vita dove la sua voce divina non lo aiutava a pagare le bollette, una storia fatta di sangue, sudore, lacrime e redenzione…
Eh si, vita complicata quella di Charles Bradley. Folgorato a 14 anni da un concerto live di James Brown, il nostro eroe, abbandonato dalla mamma ed affidato alle cure della nonna, cerca di trovare la propria strada tra mille lavoretti precari, abbandonando New York e inseguendo miglior fortuna tra Alaska, Canada, Seattle, California. Ne passa tante di traversie, rischia la morte per una reazione allergica alla penicillina, vede morire il fratello, lavora come aiuto cuoco nel Maine per 10 anni, ma non abbandona mai il suo sogno, quello di calcare i palcoscenici come il suo idolo. Tornato a NYC, per sbarcare il lunario, si esibisce in alcuni locali come clone di James Brown sotto il nome di Black Velvet.
Un giorno la sua vita cambia radicalmente: Gabriel Roth aka Bosco Mann co-fondatore della Daptone Records (nonchè bassista e produttore di Sharon Jones & The Dap-Kings), lo nota e si convince che Bradley è assolutamente perfetto per entrare nel roster della sua etichetta, un personaggio ed una voce ideale per il revival funk/soul che tuttora non conosce crisi. Roth lo presenta a Thomas Brenneck, chitarrista della Menahan Street Band: il resto è storia. Nel 2011, a 62 anni suonati, esce il suo album di esordio “No Time For Dreaming”, ed è subito un successo di critica e pubblico. Bradley esce dall’anonimato e diventa un’icona, un simbolo di chi, dopo aver lottato per tutta una vita per uscire dal buio di una vita insoddisfacente, alla fine ce la fa, addirittura suonando in quell’Apollo Theatre che lo aveva visto spettatore elettrizzato di un dirompente James Brown molti anni prima. Il vero american dream. Viene ribattezzato “The Screaming Eagle of Soul”, ottenendo un successo clamoroso ad ogni show, tanto che il regista Poull Brien si prende la briga di dirigere e presentare un documentario chiamato “Charles Bradley: Soul of America”. Il film mostra al pubblico i mesi della elettrizzante trasformazione di Bradley, dai giorni da cuoco fino al successo dell’album di esordio e ai seguenti trionfi, certificandone lo status di eroe moderno. Tutto questo lo rende sempre più sicuro di se stesso, e “Victim Of Love” nel 2013 ne attesta l’indiscutibile talento. Impossibile non volergli bene, non essere colpiti dalla sua storia e dalla sue performance vocali che grondano sudore e passione vera.
Il terzo album di Bradley si chiama “Changes”, come la cover della ballata per pianoforte scritta dai Black Sabbath per il loro “Vol 4” del 1972, e già registrata da Bradley insieme alla The Budos Band per il Black Friday Record Store Day del 2013 in un 7″ limitato a 1000 copie. Fa sorridere dire “album della maturità” per un artista che ha spento 67 candeline, ma è proprio così, perché il soul-singer padroneggia ogni brano con una abilità ed una forza emotiva davvero impressionante. Un album dedicato alla mamma, che lo aveva abbandonato da piccolo, ma con cui era riuscito a ricostruire uno splendido rapporto, e alla sua nazione, omaggiata nel recitato di “God Bless America”, messa proprio in apertura, a sancire la sua riconciliazione totale con il mondo.
Bradley con la sua passione riesce a rendere tutto incredibilmente vitale, il suo non è un sound impolverato e nostalgico, anzi, è un soul ricreato, lucidato a nuovo, splendente, come dimostra l’organo funk che apre “Good To Be Back Home” dove Bradley ricama una prestazione dolente e appassionata. La Menahan Street Band è convincente nel ricreare il sound della Motown o della Stax dei tempi belli, lasciando che sia la Budos Band ad accompagnare il cantante per due degli undici brani che compongono l’intero lavoro. Tutti i musicisti coinvolti sono estremamente misurati per lasciare spazio alla voce dell’aquila urlante e alla sua forza dirompente, trovando però il giusto spazio per alcune splendide citazioni, come il sassofono alla fine di “Nobody But You” che ricalca fedelmente l’inconfondibile linea di quella “Summer Breeze” che Seals & Croft portarono al successo nel 1972, oppure l’inizio di pianoforte di “You Think I Don’t Know (But I Know)” ripreso pari pari dall’hit di Freddie Scott targata 1968 ed intitolata “(You) Got What I Need”. “Ain’t Gonna Give Up” è un assoluto incanto tra la voce che grida di passione, i fiati che poggiano su una solida linea di basso ed i cori di Saun & Starr a sublimare il tutto.
L’album unisce il soul più classico e il gospel dell’esordio con gli innesti quasi psichedelici del suo successore, basti ascoltare proprio la cover dei Black Sabbath che dà il titolo all’album, con il nostro che si mostra meravigliosamente e drammaticamente vulnerabile nel manifestare i suoi personali sentimenti, trasformando insieme alla Budos Band l’originale in una costruzione gospel-soul di immenso impatto emotivo. “Things We Do For Love” è il momento più deliziosamente vintage dell’album, con i cori doo-wop delle Sha La Das, che accompagnano anche l’altra ballata “Crazy For Your Love”. C’è anche spazio per un accenno al sociale con il testo di “Change For The World” in cui insieme alle The Gospel Queens ci dice che
“Heaven is crying, the world is shaking / God is unhappy, the moon is breaking / Blood is spilling, God is coming.”
Il gran finale è nelle mani di una “Slow Love” che ci accoglie tra morbide nuvole e i cori celestiali ancora appannaggio di Saun & Starr.
Se cinque anni fa Bradley ci aveva stupito, ed in qualche modo commosso, con il suo splendido esordio avvenuto in tarda età, “Changes” è l’album di un artista ormai completo e confidente del suo status di stella dell’attuale panorama soul, che riesce a padroneggiare sia la classicità del genere che i diversi innesti stilistici con grande naturalezza. Il suo non è un revival, ma la sua vera essenza, la sua realtà, ed è questo a conquistare e a fare tutta la differenza del mondo. Aggiungiamoci la solita splendida produzione di Thomas Brenneck e di tutti quelli che hanno collaborato alla realizzazione dell’album alla Dunham / Daptone e abbiamo come risultato il miglior disco di Bradley in assoluto. Se volete avvicinarvi alla musica soul senza tornare indietro di qualche decennio, non fatevelo scappare.