C’è una rivista di riferimento per il movimento musicale britannico, si chiama The Wire. Ogni quattro mesi, i lettori del mensile trovano allegato alla rivista un CD chiamato The Wire Tapper: una specie di antologia del meglio della musica underground proposta dal magazine…
The Wire è stato anche il magazine sulle cui pagine è stato codificato il concetto di post-rock in un famoso articolo scritto nel maggio del 1994 da uno dei critici musicali più competenti ed influenti degli ultimi anni, Simon Reynolds. Il post-rock descritto e codificato da Reynolds era quello tipicamente britannico dell’epoca, associato a band come Bark Psychosis, A.R. Kane e Disco Inferno e a label come la Too Pure. Solo successivamente il termine è stato allargato facendo confluire suoni e band estremamente diverse tra loro come Tortoise, Slint, Mogwai,ecc.
L’unica band italiana ad essere inclusa per ben due volte nei CD di The Wire Tapper sono stati gli Stearica. Band torinese dedita ad una profonda ricerca sonora e più protesa ad un contatto diretto con pubblico ed addetti al lavori tramite la dimensione live, che alla registrazione in studio. Con soli 2 album in 18 anni di attività, non si può dire che il trio abbia inflazionato il mercato discografico. Il loro ultimo album in studio, ‘Oltre‘, risale al 2007, seguito tre anni dopo da un eccitante lavoro registrato improvvisando in combo con quell’incredibile collettivo mutante chiamato Acid Mothers Temple & The Melting Paraiso UFO ed intitolato ‘Stearica Invade Acid Mothers Temple’. Insomma, per chi non l’avesse capito, il chitarrista Francesco Carlucci insieme ai suoi due compagni di avventura Davide Compagnoni (batteria) e Luca Paiardi (basso), sono sempre andati controcorrente rispetto alle tendenze italiche che vedono la necessità di proporre suoni che possano tranquillizzare e sedare gli ascoltatori ed i fruitori di musica, basti pensare al proliferare dei talent e delle cover band. Fortunatamente i tre viaggiano nella direzione opposta, un gruppo senza barriere ne confini, conosciuto più all’estero che in patria, che entra nelle grazie dell’inglese Monotreme Records (65daysofstatic, M+A, e i connazionali Niagara), e si fa conoscere dal grande pubblico grazie ad un incessante promozione on stage, facendo da supporto, tra agli altri, ai succitati Acid Mothers Temple, ai Girls Against Boys, al grande Damo Suzuki e ai NoMeansNo, e suonando in vari festival in giro per l’Europa. Proprio la loro partecipazione al Primavera Sound del 2011 ha acceso la prima miccia per la registrazione del nuovo album. Il contatto con la rivolta degli Indignados spagnoli, insieme alle rivolte tra medio oriente e nord africa della cosiddetta Primavera Araba che riempivano i televisori quando il gruppo stava iniziando la pre-produzione del nuovo album, hanno fornito al gruppo un combustibile potente. Vedere persone così diverse combattere con grande forza ed intensità per i propri diritti ha ispirato il trio a veicolare quell’energia tramite i loro strumenti. Proprio la zona delle rivolte, la cosiddetta Fertile Crescent, ha ispirato anche il titolo dell’album. ‘Fertile’ è un disco con un suono scuro e potente ma illuminato dalla luce delle candele.
A “Delta” è stato assegnato il compito di aprire le danze, il basso distorto, il drumming preciso e potente e vari disturbi elettronici, riescono a creare il perfetto scenario dove la chitarra può disegnare i suoi arabeschi, ora grezzi e roboanti, ora leggeri e cristallini, trovando un perfetto equilibrio. La successiva “Halite” spinge forte sull’acceleratore con un incedere marziale ed industrial che non lascia prigionieri, mentre “Bes” parte lenta e psichedelica con un gran lavoro di hi-hat, si impenna in un botta e risposta tra muro di suono e silenzio, per approdare finalmente su una calma isola di suono visionario. L’immaginario è fondamentale in un album quasi interamente strumentale, e i tre torinesi riescono a maneggiarlo con maestria come nella meraviglia di “Geber” dove Carlucci dipinge magie su un cielo stellato, piazzando un’alternanza perfetta tra montagne di suono e pianure melodiche nella seconda metà del brano. La band è chirurgica nel collocare brevi pause per aumentare la tensione, e farla poi sciogliere fragorosa con potenti riff di chitarra e aperture melodiche. A questo punto le coordinate sonore sono ben chiare, un maestoso e personale crocevia tra post e math-rock, stoner e psichedelia.
La successiva “Nur” sembra assecondare gli stessi binari, fino a che, dopo 2 minuti e mezzo, ecco la voce di Ryan Patterson (leader della band post-hardcore di Louisville chiamata Coliseum) azionare diabolico lo scambio facendo deragliare il vagone in un nervoso hardcore. “Tigris” gronda spiritualità in uno scuro orizzonte sonoro che viene squarciato da lampi e fuochi d’artificio che si inseguono, come il serrato dialogo tra la chitarra e la sezione ritmica. “Siqlum” accentua l’ispirazione mediorientale, la tensione si dirada un po’ e per alcuni tratti il rimshot prende addirittura il posto del rullante nel drumming potente di Compagnoni, prima che il ritmo si alzi di nuovo e la chitarra in dissolvenza lascia presagire la fine del brano…anzi no, perché il brano muore e rinasce dalle proprie ceneri più volte fino alla catarsi finale. Scott McCloud, cantante dei Girls Against Boys ha avuto la totale libertà espressiva nel creare un testo per la band. Il risultato è stato estremamente affine al concetto dietro Fertile, una sorta di parallelismo ideale tra l’Occidente e la questione araba. Il testo che si riferisce alla giungla delle città americane, ha portato Carlucci a chiamare la traccia “Amreeka” riprendendo il titolo di un film indipendente di Cherien Dabis presentato al Sundance Film Festival del 2009, e che narra di una famiglia palestinese che emigra negli Stati Uniti. subito dopo l’invasione dell’Iraq del 2003. La conclusiva e lunghissima “Shāh Māt” (Scacco Matto in persiano) che chiude l’album, mantiene le stesse atmosfere dilatate della traccia precedente, impreziosite dalla collaborazione con un gigante dell’alt-jazz contemporaneo, quel Colin Stetson che tanto riesce a coinvolgere ed emozionare con la sua serie New History Warfare, i cui primi 3 volumi sono stati pubblicati dalla benemerita etichetta canadese Constellation. Stetson crea un perfetto muro di fiati con flauto, corno francese, sax alto e tenore. Quasi 11 minuti di delirio apocalittico, post-rock, jazz, sabbia, tribalismi, urla, elettronica, respiri, furore, ed estasi noise che chiude come meglio è difficile immaginare un disco meraviglioso ed appagante. E se siete curiosi di sapere come la band ha scelto i titoli delle canzoni, ce lo spiega lo stesso chitarrista Francesco Carlucci:
“I titoli, come sempre per me, richiamano un immaginario… In questo caso è un viaggio dal Delta del Nilo, fiume che inonda e poi rende la vita, sino a Shāh Māt, che è da interpretare nella doppia lettura ‘Scacco Matto/Il re è morto'”.
Una band di livello assolutamente internazionale, che se la gioca con tutti ad armi pari sui palcoscenici di tutta Europa.