Devo essere sincero, quando ho saputo che dopo le varie peripezie, più o meno riuscite seppur positive come The Twilight Singers e Gutter Twins, Greg Dulli aveva deciso di riprendersi l’identità che più di ogni altra gli si addiceva, ovverosia The Afghan Whigs, ho avuto uno strano moto di felicità nel cuore.
Sì perché probabilmente i Whigs sono stati il mio gruppo preferito dell’era grunge: quello che veniva da Cincinnati e non da Seattle, quello cui piaceva spesso e volentieri sotterrare l’ascia di guerra o contaminarla con il verbo soul ed i venti Motown provenienti dalla città delle automobili, molto più vicina alla loro città natale rispetto alla Emerald City. Il mio elettrocardiogramma era andato talmente fuori scala da preordinare il doppio vinile colorato in un’edizione limitata di ‘Do To The Beast’ (questo il titolo scelto per il loro ritorno) battezzata “Loser Edition” in linea con un’ironia tutta Dulliana, mai così profetica…
Il silenzio della band durava dal 1998, anno in cui era uscito ‘1965’, la cui copertina era dedicata alla prima “camminata” nello spazio durante la missione Gemini 4, e l’interno alla R&B Top 30 dell’epoca. ‘1965’ era stato un congedo più che dignitoso per una band spesso e volentieri ispiratissima, capitanata da un Greg Dulli ironico e dandy, uomo attratto dal soul e dalla decadenza, perverso e depresso, ma sempre è comunque tra gli autori migliori della sua generazione. La reunion era nell’aria; alcuni concerti nel 2012 avevano spalancato la porta ad un nuovo lavoro in studio che, puntualmente, è apparso sugli scaffali il 15 aprile di quest’anno.
Certo non potevo, ne volevo, aspettarmi un nuovo ‘Up In It’ o un nuovo ‘Gentlemen’; l’abbandono all’ultimo momento del chitarrista Rick McCollum suonava già come un campanello d’allarme e la poca fiducia che nutro da sempre nelle riunioni dopo tanti anni (e 16 non sono pochi) mi avevano portato a fare i debiti scongiuri di rito. La prima impressione tattile e visiva è fantastica: doppio vinile bianco, libretto formato album curatissimo con testi scritti “a mano” e foto in bianco e nero…
Tutto sembra perfetto fino a quando la puntina non si posa sul vinile e parte il riffone di “Parked Outside”: per un attimo le lancette dell’orologio volano indietro, anche se la voce di Dulli non sembra davvero nella sua forma migliore. Ma in fondo chi se ne frega, non è mai stato quello il suo punto di forza. L’intonazione sofferta da rocker innamorato del soul, quella sì che ha sempre saputo emozionare! E per un attimo eccola di nuovo spargersi nell’aria come se il tempo non fosse mai passato, ma qualcosa non quadra perché il pezzo promette bene, ma sembra girare a vuoto alla ricerca di un’idea, di una soluzione che non arriva mai, di un’uscita che non si trova. A seguire, “Matamoros”, sembra più lucidamente messa a fuoco con quel suo sensuale incedere arabeggiante e al contempo psichedelico, con un Greg Dulli che sembra finalmente più a suo agio e capace di intrigare come ai bei tempi. Forse c’è una speranza, il sorriso può riprendere il suo posto. Ma poi il pianoforte fa da intro a “It Kills”, traccia che parte languida, e fin lì nulla di male, e che poi sembra fare il verso ad alcune cose di ‘Black Love’, ma al brano manca il nerbo, manca quella passione disperata che così tanto mi hanno fatto amare i Whigs. Non bastasse, gli arrangiamenti orchestrali che vorrebbero far librare tutto nell’aria, risultano pesanti come macigni.
La seconda facciata si apre con “Algiers” l’unico brano che avevo già ascoltato e che mi aveva fatto ben sperare, scelto, non a caso, come apripista. Sì, si tratta di una canzone un po’ radiofonica e ruffiana, ma l’insieme non è affatto male lasciando una speranza per il resto dell’album. Mera illusione purtroppo, perché la seguente “Lost In The Woods” fa venire davvero voglia di allontanarsi da Cincinnati e perdersi nei boschi. Sono quasi 5 minuti che girano intorno al nulla senza uno straccio di idea, senza una fiamma, cercando di ritrovare quell’ispirazione grunge-soul che li ha resi grandi. “The Lottery” non fa altro che riproporre i loro cliché accendendo un fuoco che non scalda. Dove è finito il Dulli tanto tormentato quanto ispirato? Il Dulli edonista luciferino con cui saremmo scesi volentieri negli inferi? Una scintilla riesce ad accenderla “Can Rova”, ballad che riesce nel non facile tentativo di abbeverare un’anima troppo assetata di emozioni. Ma poi arriva la quarta facciata del disco, ed è un precipitare senza reti nella notte fonda: “Royal Cream” non riesce nemmeno a trovare un ritornello trascinante che possa risollevarla e la seguente “I Am Fire”, che del fuoco che promette non è nemmeno la cenere, si prolunga stancamente per quasi 3 minuti. Il finale è affidato a “These Sticks” brano che speravo potesse lasciarmi almeno un gusto dolce sul palato ma che, invece, lascia solo l’amaro in bocca.
Quell’impeto passionale e tormentato mischiato con la sensualità del soul, che è stato per anni il punto di forza dei Whigs, cerca di lottare con tutte le sue forze, ma finisce inevitabilmente per soccombere. Tranne poche, troppo poche, eccezioni, a primeggiare sono la banalità della scrittura e un’orchestrazione senza nerbo. Non bastasse, a corollario dell’album, ecco che i nostri registrano anche la cover di uno dei pezzi più sciatti della storia dei Police, “Every Little Thing She Does is Magic”, e sentire Greg Dulli scimmiottare Sting è stato davvero il colpo di grazia. Il fiammifero si è spento.
“This ain’t love… but let’s pretend”
Recita la canzone finale del disco: no Greg, perdonami, stavolta non riesco proprio a fare finta che sia amore.