Agosto 2016. Una news mi fa sobbalzare dalla sedia. I The Who per celebrare degnamente il 100° concerto benefico a sostegno del Teenage Cancer Trust (una splendida organizzazione che fornisce una preziosa assistenza ai giovani malati di cancro di cui Roger Daltrey è presidente onorario), suoneranno due date nella storica cornice della Royal Albert Hall. Come dite? Ah è vero, la band britannica all’epoca dell’annuncio stava per approdare in Italia per due date a Milano e Bologna. Ma io sono snob, se volete etichettarmi così. Non avevo resistito a vederli durante il British Summer Time a Hyde Park nel 2015 perché l’idea di vederli suonare a poche fermate di Tube da casa loro era terribilmente elettrizzante.
I pochi dubbi che avevo si sono dissolti quando scorrendo il testo ho letto che avrebbero presentato la loro prima rock opera Tommy (mai più suonata per intero dal 1989), e che stavolta l’avrebbero addirittura suonata in un’inedita versione acustica. Fermi tutti! Tommy + Royal Albert Hall + Teenage Cancer Trust = quando saranno disponibili i biglietti?
Il giorno della vendita online ho passato momenti di panico, soprattutto pensando a come vanno le vendite telematiche nel nostro paese. Sudorazione a mille, salivazione azzerata, infiammazione del tunnel carpale e dito a scatto fino al magico messaggio “purchase completed”. Il biglietto era mio, potevo iniziare a programmare il tutto. In realtà sono stati sei mesi di panico. Il terrore che provavo non osavo nemmeno proferirlo per il timore di portare sfiga. Ogni artista che ci ha lasciato in questi mesi è stata una doppia stilettata. Forza Rog e Pete, in fondo non siete così vecchi e anche al Desert Trip Festival vi ho visto in gran forma. Resistete dai. I due mi hanno ascoltato e Londra ha accolto l’evento con una giornata inaspettatamente calda e davvero primaverile nell’accezione italiana del termine. La paura per gli eventi tragici che hanno macchiato di sangue la capitale britannica appena una settimana prima è svanita, arrivo davanti ai Kensington Gardens in largo anticipo per assaporare ogni istante. Guardando le persone in rispettosa fila davanti all’ingresso mi piombano tra capo e collo i 50 anni appena compiuti, l’età media è abbastanza alta.
E ti credo, penso tra me e me, mica siamo all’università di Leeds nel giorno di San Valentino del 1970. Siamo nel 2017: Keith Moon e John Entwistle ci hanno lasciato, Roger Daltrey non ha più la sua sublime voce da ragazzo e non posso mica pretendere che Pete Townshend si metta a saltare in aria e spaccare chitarre a 70 anni suonati! Il tempo non è passato solo per loro. L’accesso diviso sulle nove entrate dello storico edificio fa si che tutto fili liscio nonostante il controllo del documento all’ingresso. Salgo su al primo piano, il mio box è ancora chiuso ma il bar è aperto. Ne approfitto per mangiare e bere qualcosa. Ma qualcuno sta facendo il soundcheck, vuoi vedere che c’è un gruppo spalla? In realtà sento solo una chitarra acustica e un piano, ma la canzone la riconosco quasi subito: Don’t Look Back in Anger degli Oasis. Sbircio dal box aperto degli addetti alla ristorazione: guarda un po’ chi c’è, il rissoso Noel Gallagher ha aderito con un’inaspettata umiltà all’evento, anche se non bisogna essere troppo severi con lui. In fondo ha sempre risposto presente quando di tratta di eventi benefici ed è stato uno dei primi artisti a dare il suo appoggio ai concerti organizzati dal Teenage Cancer Trust. Sarà lui quindi la sorpresa annunciata per celebrare il 100° concerto della serie.
“We’re on our own, cousin/ All alone, cousin…” le parole del cugino Kevin mi tornano in mente mentre entro nel mio box e ripenso alla genesi di Tommy, non la prima opera rock mai pubblicata ma probabilmente la più conosciuta (non me ne vogliano i fans di Kinks e Pretty Things). Era il 1968 quando a Pete Townshend, fresco sposo e coinvolto spiritualmente dal guru Meher Baba, viene l’idea di scrivere un ciclo di canzoni legate da uno stesso tema spirituale. Una sera a San Francisco Townshend descrisse così la sua idea al suo amico giornalista Jann Wenner durante una serata a base di alcool e cocaina a casa di Jack Casady dei Jefferson Airplane: “E’ la storia di un bambino che è nato cieco, muto e sordo e di ciò che gli accade durante tutta la vita. Il ragazzo è interpretato dagli Who. E’ rappresentato musicalmente da un tema che suoniamo e che dà il via all’opera stessa, seguito da una canzone che descrive il ragazzo. Ma ciò che davvero conta è che il ragazzo vive in un mondo di vibrazioni. In questo modo l’ascoltatore diventa profondamente consapevole della natura del ragazzo, perché lo ricrea dalle vibrazioni create dalla nostra musica. E’ una cosa molto complessa, non so nemmeno se ne verrò a capo”. Wenner aveva da poco creato una rivista chiamata Rolling Stone, su cui pubblicò tutto quello che Townshend gli disse quella sera. Durante il lavoro di scrittura e registrazioni le cose cambiarono, Tommy perde vista, udito e parola non più alla nascita, ma dopo un atto traumatico: l’uccisione dell’amante della madre da parte del padre tornato inaspettatamente dalla guerra dove tutti lo credevano morto. Il ragazzo viene usato da tutti, dalla famiglia, dai compagni di classe, dagli spacciatori di droga, un figlio del dopoguerra come il suo creatore, che trova la sua riscossa in un “salto nell’assurdo”: diventando un mago del flipper, un guru adorato dai suoi nuovi adepti.
Tommy fu la vera svolta per la carriera degli Who. I componenti del gruppo, che fino a quel momento avevano fatto a gara sul palco a chi ce l’aveva più lungo, iniziarono a lasciare da parte le proprie eccentricità iniziando a lavorare di più come gruppo, sostenendosi a vicenda. Roger Daltrey, appropriandosi del personaggio principale e immedesimandosi nel bambino traumatizzato che dopo essere diventato mago del flipper acquisisce di nuovo la propria normalità rompendo lo specchio, riuscì a raggiungere la sua definitiva maturità come cantante ed interprete. L’attenzione del pubblico non era più rivolta verso il singolo da classifica, ma verso l’album nella sua interezza, e Townshend era stato perfettamente in grado di capire ed interpretare questo nuovo desiderio da parte della gente. L’opera rock era stata il perno di moltissimi acclamati concerti, da quello storico di Woodstock all’altro registrato il 14 febbraio del 1970 finito nella ristampa dello storico Live At Leeds, considerato quasi all’unanimità uno dei migliori album dal vivo di tutti i tempi. Quello che accadde dopo è storia: i fasti ancora di Who’s Next e Quadrophenia, la decadenza, la morte di Keith Moon, gli album deboli degli anni ’80 con Kenney Jones dietro i tamburi, la fine (o quasi) dell’attività in studio come gruppo e la morte anche di “The Ox” Entwistle, uno dei più grandi bassisti della storia del rock. Nel 1989, per il 25° anniversario della band, Townshend, Daltrey e Entwistle si imbarcarono in un lungo tour di reunion circondati da una completa sezione fiati e da Simon Phillips alla batteria. Tommy fu eseguito di nuovo per intero solo in due date negli States e in altre due proprio alla Royal Albert Hall, con special guests come Phil Collins. Elton John e Patti Labelle. Poi, dal 1989 per Tommy era calato il sipario di nuovo, fino ad oggi.
Torniamo alla Royal Albert Hall e al concerto aperto, a sorpresa, da Noel Gallagher in un intimo set acustico accompagnato dalla sua chitarra e da un tastierista. In un set di circa 30 minuti, il mancuniano ha alternato alcuni brani degli Oasis ad altri più recenti composti per l’esordio discografico del suo collettivo Noel Gallagher’s High Flying Birds. Veri e propri boati hanno accompagnato (ovviamente) i brani più conosciuti della sua vecchia band come Supersonic e Wonderwall. Alla fine del set Noel si congeda dicendo che non vede l’ora di sentire e vedere la performance di “Thomas” come la chiama lui. Ecco qui sotto la scaletta proposta da Gallagher.
Everybody’s on the Run
Supersonic
If I Had a Gun…
Half the World Away
Wonderwall
AKA… What a Life!
Don’t Look Back in Anger
Sparks
Come detto si tratta di un’occasione speciale. Proprio gli Who nel 2000 avevano aperto la serie di concerti destinati a raccogliere fondi per il Teenager Cancer Trust, ed il presidente onorario Mr. Daltrey giustamente ci teneva a officiare il 100 concerto per la splendida associazione benefica. Prima del set degli Who, il presentatore della serata Tim Lovejoy fa proiettare sul megaschermo un video davvero toccante che mostra alcuni giovani malati di cancro e come la TCT è in grado di aiutarli nei loro bisogni quotidiani grazie all’aiuto di tutti. Poi è la volta di alcuni di questi ragazzi a salire sul palco per ringraziare. “Cancer’s shit” dice il loro portavoce prima che Lovejoy chieda all’audience di far accendere i led dei propri telefonini per far fare ai ragazzi il più meraviglioso dei selfie. Un momento davvero toccante. Un abbraccio virtuale a loro e a tutti quelli che stanno attraversando l’inferno tentando di sorridere. Pensare di poter dare loro anche solo un piccolissimo aiuto è una carezza al cuore.
Tommy, Can You Hear Me?
E così arriva il momento tanto atteso. Come sarà questa interpretazione acustica di Tommy? Apparentemente il setup sul palco sembra lo stesso di sempre, e la band fa il suo ingresso trionfale accolto da un’ovazione. Prima sorpresa: al basso non c’è Pino Palladino, attualmente in tour con il trio di John Mayer. Al suo posto c’è Jon Button ottimo turnista che ha già lavorato in passato con la band di Roger Daltrey. Lo stesso cantante prende il microfono e spiega così la missione del Teenage Cancer Trust:
“Before, you could wake up at 16 years old, after some dreadful chemotherapy or horrible operation where you’ve lost your leg or arm, and there’s someone here tonight who knows exactly what that feels like and it’s good to see you still here, still pushing on. They used to wake up and they could be next to a two-year-old. And in the bed next to that could be a five-year-old. And you can imagine the horror that could be… or an old fart like me!”
Durante le ultime settimane, la band aveva provato questa nuova versione di Tommy, che avrebbe dovuto vedere l’inserimento di diverse sezioni acustiche all’interno della rock opera. Ma a sentire il cantante sembra che durante le prove le cose non hanno funzionato come avrebbero dovuto. Daltrey ha spiegato così al pubblico, “Sorry about the acoustics. It would have taken about four weeks of rehearsals and the charity wouldn’t have made any money, so we thought: fuck it!” e Townshend ha aggiunto, “Actually, it was my fault. I couldn’t get the acoustic to sound big enough, so I got this red thing instead,” indicando la sua rossa Fender Stratocaster. E mentre tutti si aspettavano le prime note di Overture, ecco che il gruppo spiazza tutti attaccando con l’anthemico riff kinksiano della sempre devastante I Can’t Explain, seguita a ruota da Substitute, un altro di quei brani mai inseriti in un album ufficiale ma pubblicato esclusivamente come singolo nel 1966, che riesce a trovare posto (meritatamente) in scaletta.
Nella setlist “regolare” degli ultimi tour della band gli estratti da Tommy sono stati la classica Pinball Wizard e il medley Amazing Journey / Overture / Sparks, ma naturalmente oggi è un’altra storia. Ecco arrivare finalmente il momento tanto atteso, quello dell’esecuzione completa dell’opera rock. Si parte con la lunga introduzione strumentale di Overture fino a quando Townshend attacca con i primi versi:
“Captain Walker didn’t come home, his unborn child will never know him. Believe him missing with a number of men, don’t expect to see him again”.
Zak Starkey sembrava non aspettare altro, già a Hyde Park mi era sembrato l’unico sostituto credibile di Keith Moon, stasera, se possibile questa sensazione è ulteriormente aumentata. Sembrava davvero che il figlio di Ringo Starr (nonché figlioccio di Moonie) non vedesse davvero l’ora di cimentarsi con l’intera rock opera, visto il modo in cui ha aggredito tamburi e cimbali già dalle prime note. Da li in poi la band ci fa rivivere dopo tanti anni le traversie del ragazzo: dalla visione dell’omicidio attraverso lo specchio alla perdita dei sensi primari. Da It’s A Boy e 1921 a Amazing Journey e Sparks che sono in qualche modo il centro dell’opera.
“Deaf dumb and blind boy / He’s in a quiet vibration land / Strange as it seems his musical dreams ain’t quite so bad”
Queste ultime due tracce non sono una novità visto che come detto appaiono spesso e volentieri nelle setlist regolari degli ultimi anni in medley con Overture, ma naturalmente in questo contesto assumono un significato ed una valenza completamente diversa. E mentre durante Christmas il padre di Tommy si chiede
“And Tommy doesn’t know what day it is. Doesn’t know who Jesus was or what praying is. How can he be saved? From the eternal grave. Tommy can you hear me?”
Il ragazzo risponde con quello che sarà il tema ricorrente dell’album:
“See me, feel me
Touch me, heal me!”
E il 73enne Roger Daltrey torna indietro nel tempo, in un gioco vorticoso di luci, con la chitarra del suo (stranamente più irrequieto del solito) sodale a fargli da solida spalla, con un meraviglioso e irrefrenabile Zak Starkey, a interpretare il viaggio complesso del ragazzo, prima vittima di bullismo da parte del cugino (una splendida versione di Cousin Kevin), poi istigato dalla prostituta e spacciatrice Acid Queen il cui intro viene ripetuto due volte da Townshend che ha anche il compito di interpretarla. Dopo Underture tutti a cantare a squarciagola Do You Think It’s Alright e il ritornello Fiddle About del perverso zio Ernie. Fino all’anthemica Pinball Wizard il cui “That deaf, dumb and blind kid, sure plays a mean pinball!” risuona sicuramente fino a Greenwich mentre tutti rimangono estasiati dai giochi di luce e dalla forza incredibile di una band fuori dal tempo. Sembra proprio che The Kids Are Alright.
Smash the Mirror
La band continua in modo meraviglioso a raccontare la storia del ragazzo che adesso è diventato un campione di flipper attraverso le vibrazioni e l’unico senso rimastogli, il tatto. E se il diventare campione gli ha fatto conquistare molti adepti (come il guru di Townshend, Meher Baba, che aveva rinunciato scientemente all’uso della parola), oltrepassando lo specchio da cui aveva assistito all’efferato omicidio Tommy torna alla vita e inizia un percorso che lo porta a divenire a sua volta un “messia” in grado di liberare e curare gli altri facendogli seguire il suo percorso. Il finale è noto, il padre trova un dottore (There’s a Doctor), il quale ritiene che l’unico modo per comunicare con Tommy sia attraverso lo specchio. La madre non gli crede ma distruggendo lo specchio di casa (Smash The Mirror) genera inconsapevolmente una cura miracolosa che rende Tommy libero facendogli riacquistare tutti i sensi. E allora giù come in un ottovolante con I’m Free, Miracle Cure, Sensations, e Sally Simpson, con quest’ultima cantata dal fratello di Pete, Simon Townshend. Ha ragione lo zio Ernie invitandoci al Tommy’s Holiday Camp: “Never mind the weather. When you come to Tommy’s, the holiday’s forever”. Certo, ci sono momenti di incertezza, e non potrebbe essere altrimenti dopo tutti questi anni, e se Starkey è una furia scatenata, tra il malcapitato Jon Button e John Entwistle ci sono diverse categorie di differenza.
We’re Not Gonna Take It
Chissà se, mentre ingaggia una lotta verbale con il suo guitar tech, a Pete Townshend sarà venuta in mente di nuovo, come un’onda emotiva, tutta la sua storia che, come quella del personaggio da lui creato, ha attraversato momenti difficili, avendo subito abusi da bambino (cosa che nel 1969 lo turbava ancora così tanto da chiedere a John Entwistle di scrivere per lui i capitoli dedicati al bullo cugino Kevin e al perverso Zio Ernie), ma trovando il modo di rompere finalmente il suo specchio personale proprio con Tommy, trovando una propria identificazione personale come uno dei più grandi autori del suo tempo. Un Townshend che rispetto al solito oggi appare taciturno, lasciando molto più spazio del solito al suo amico e fratello acquisito Roger Daltrey, oggi vero mattatore della serata.
“Listening to you, I get the music. Gazing at you, I get the heat. Following you, I climb the mountain. I get excitement at your feet. Right behind you, I see the millions. On you, I see the glory. From you, I get opinions. From you, I get the story”
Sembra passato un minuto da quando è iniziato, e la magia di We’re Not Gonna Take It chiude l’esecuzione di Tommy, portando con se un universo di emozioni, passate anche attraverso quelle meravigliose imperfezioni normali (fatali) per un’opera mai suonata negli ultimi 30 anni.
“Quando eseguivamo Tommy, spesso mi sembrava di perdere coscienza. Non ero fatto, o perlomeno non ero fatto di droghe. Ero concentrato. Erano le mie sostanze chimiche endogene (le endorfine, la dopamina, la serotonina e l’adrenalina) a procurarmi una scarica in corpo.” (Pete Townshend)
Il boato sembra scuotere la vecchia struttura dalle fondamenta: è stata una versione potente, non pomposa e magniloquente come quella del 1989 infarcita di fiati e special guests, ma più simile (facendo le debite proporzioni) a quella suonata nel Live At Leeds e portata in giro per un paio d’anni prima di abbandonarla per dar vita ad una setlist più omogenea. Una versione più asciutta, nonostante i due tastieristi John Corey e Loren Gold e il direttore musicale Frank Simes, i cui strumenti non sono mai andati mai sopra le righe, attenendosi il più possibile alla versione originale.
Join Together
Non c’è tempo di riprendersi (a parte la follia del mio vicino di sedia che alla 4 bottiglia di prosecco decide di abbandonare la sala quando We’re Not Gonna Take It non era ancora a metà), perché dopo una brevissima pausa ecco Townshend far roteare il braccio e far partire l’inconfondibile intro di EMS VCS 3 di Won’t Get Fooled Again mentre lo schermo proietta luci psichedeliche blu. Poi parte QUEL riff di chitarra che scuote e marchia a fuoco la Royal Albert Hall. Il ruggito è prepotente, un inno, suonato in una versione stratosferica. Il brano che chiude il loro capolavoro Who’s Next è un invito a diffidare dei predicatori della rivoluzione che quando arrivano al potere si comportano come i loro predecessori. Un brano scritto per la progettata seconda opera rock chiamata Lifehouse, opera che fu abortita trasformandosi però nel capolavoro degli Who. Townshend la chiude mulinando il braccio come non faceva da tempo, dopo un fill pazzesco da parte di Zak Starkey. Anche la successiva Join Together doveva far parte di Lifehouse, ma non ha trovato la collocazione su Who’s Next, uscendo solo come singolo nel 1972. Le immagini che scorrono sullo sfondo focalizzano l’attenzione sulla band nei ’70 con effetti vintage, mentre il pubblico, ormai in modalità standing ovation fissa, canta all’unisono come richiesto esplicitamente da Daltrey prima del brano. Se posso trovare una pecca in questa serata, direi che l’inserimento di un brano da Quadrophenia o un’altra vecchia hit al posto di Join Together sarebbe stato il massimo. E infatti nel concerto seguente del 1 aprile hanno sostituito Substitute (scusate il gioco di parole) con Love Reign O’er Me e I Can See For Miles.
Quando poi parte l’intro di Baba O’Riley la folla va in visibilio, ogni pennata di Townshend è una stilettata al cuore.
“Don’t cry, don’t raise your eye. It’s only teenage wasteland”
L’urlo della Royal Albert Hall “Teenage Wasteland, It’s Only Teenage Wasteland” sale alto fino al tetto fino a quando Roger Daltrey urla “They’re All Wasted!!!” e Pete strapazza la chitarra nella sua mossa tipica, facendo mulinare velocemente il braccio destro: mossa ispirata da Keith Richards e nata dietro le quinte di un concerto dei Rolling Stones a Putney nel dicembre del 1963 come racconta lo stesso Townshend nel suo libro Who Am I:
“Mentre aspettava che il sipario si aprisse, Keith Richards si scioglieva le articolazioni facendo ruotare il braccio come la pala di un mulino a vento. Poche settimane dopo fummo ancora i supporter degli Stones al Glenlyn Ballroom e quando vidi che Keith non ripetè la mossa a pala di mulino, decisi che l’avrei fatta io.” (Pete Townshend)
Il finale della canzone ispirata già dal titolo a Meher Baba (la famosa guida spirituale dello stesso Townshend), è come sempre trascinante con un Daltrey letteralmente scatenato con la sua armonica. La presentazione dei musicisti è più veloce del solito e precede un finale (quasi) inedito. Il brano finale del concerto è infatti Who Are You, brano conosciuto davvero da tutti, compreso chi conosce gli Who solo grazie alle sigle dei vari CSI, e ultimo rigurgito di un gruppo che all’epoca (1978) stava collassando. La canzone è stata scritta da Townshend in un momento di completa frustrazione riguardo al controllo delle sue royalties come autore e della situazione finanziaria della band in generale, e registrata nel momento forse peggiore del gruppo, con un Keith Moon ormai praticamente incapace di suonare decentemente in studio, presagio della sua morte, che avverrà poche settimane dopo l’uscita del disco omonimo. Alla fine del brano con la folla ormai in visibilio, Townshend presenta la band in modo molto veloce, concludendo con un “all fucking useless!” tipico del suo modo di essere e lasciando spazio per i ringraziamenti ed il “Most of all Be Lucky” di rito al gran cerimoniere Roger Daltrey.
La Royal Albert Hall è un posto fantastico, una sala grande e intima allo stesso tempo. E anche il suono è fantastico, con ogni probabilità migliore quando le band non suonano troppo forte. Ad esempio il set acustico di Noel Gallagher si sentiva in maniera fantastica, la sala ne esaltava ogni sfumatura. Pensandoci bene è una cosa assolutamente normale se si pensa che la RAH è stata costruita quando non esisteva ancora l’amplificazione così come la intendiamo noi. I giochi di luce sono stati meravigliosi: Tom Kenny, il lighting designer, ha saputo utilizzare al meglio ogni superficie dello schermo e persino il soffitto della sala. Era la prima dopo 30 anni per Tommy, e proprio il suo autore ha sembrato risentirne più di tutti. Nervoso e molto meno loquace del solito, ha fatto piegare e impennare le sue Stratocaster alla ricerca di una difficile improvvisazione e del suono perfetto, mentre il suo sodale sembrava molto più a suo agio roteando il filo del microfono da par suo e Zak Starkey con il suo dinamico incedere non si fermava un attimo assaporando la sua prima volta alle prese con l’iconico concept. Le cronache raccontano che il secondo ed ultimo appuntamento con la Royal Albert Hall per il Teenage Cancer Trust e Tommy nella sua interezza avvenuto due giorni dopo è andato più spedito, con la rock opera suonata in apertura di concerto ed in maniera più sciolta dopo aver rotto il ghiaccio.
Resta l’emozione enorme di aver vissuto una pagina di storia. Solo sei volte negli ultimi 47 anni gli Who hanno eseguito dal vivo questa pietra miliare del rock, e io sono felice di aver assistito ad una di queste rarissime occasioni, per di più in un ambiente fantastico e per una più che nobile causa. Pochissime band sono riuscite ad attraversare più di mezzo secolo avendo ancora qualcosa da dire e riuscendo a scatenare tutta questa energia. Aveva ragione Pete Townshend quando ha detto: “Credo che il rock possa fare qualsiasi cosa. E’ il veicolo più potente in tutti i sensi. E’ il veicolo più potente per dire qualcosa, per distruggere tutto, per costruire tutto, per uccidere e ricreare. Ed è in assoluto il veicolo più potente per l’autodistruzione.”
Tommy and More – Setlist
I Can’t Explain
Substitute
Overture
It’s a Boy
1921
Amazing Journey
Sparks
Eyesight to the Blind (The Hawker)
Christmas
Cousin Kevin
The Acid Queen
Do You Think It’s Alright?
Fiddle About
Pinball Wizard
There’s a Doctor
Go To The Mirror!
Tommy Can You Hear Me?
Smash The Mirror
Underture
I’m Free
Miracle Cure
Sensation
Sally Simpson
Welcome
Tommy’s Holiday Camp
We’re Not Gonna Take It
Won’t Get Fooled Again
Join Together
Baba O’Riley
Who Are You